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mercoledì 26 ottobre 2016

Black Mirror, Stranger Things,The Leftovers e altro. Riflessioni sulle più attuali serie televisive.

                                Eleven, da Stranger Things (2016).

Desideravo da tempo mettere insieme alcuni pensieri sperabilmente sensati circa il trend perturbante contemporaneo più recente, che vede le serie TV sempre più protagoniste indiscusse di una nuova mitopoiesi narrativa nascente proprio sotto i nostri occhi, e quotidianamente. Una terrificante influenza che si è in questi giorni abbattuta sul sottoscritto mi permette dunque di avere il tempo di provare a mettere insieme questi pensieri. Come diceva un noto psicoanalista ginevrino, ogni tanto “ammalarsi fa bene”. Non si tratta, come vedrete, di una vera e propria recensione, ma di una riflessione che naturalmente passa a volo d'uccello su varie serie, diverse tra loro, comunque caratterizzate da tematiche ascrivibili al Perturbante, alcune delle quali mi sono piaciute di più mentre altre di meno. In veritá (partiamo da questo prima riflessione), ciò che mi colpisce particolarmente di questo proliferare di serie TV che sono seguite da milioni di telespettatori (compreso il sottoscritto, che ama il cinema e odia la TV, attenzione), è intanto proprio il fatto che ciò che caratterizza quelle maggiormente seguite è proprio l'aspetto perturbante. Non si tratta cioè di quelli che una volta si chiamavano "sceneggiati", cioè storie usualmente tratte da opere famose di vario genere, ad esempio storico. Le attuali narrazioni seriali sono tutte caratterizzate da un loro naturale, quasi scontato attingere al genere Perturbante in quanto tale. E credo che questo, innanzitutto, rispecchi lo Zeitgeist. Il nostro tempo è infatti attraversato da un senso di precarietà, di perdita e di "lutto sociale", di instabilitá del senso di speranza, che non sono mai stati così intensi, e che forse l'umanità, almeno in area europea, ha provato forse solo durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Crisi economica, sfiducia totale nei confronti della politica intesa come contenitore ideologico e guida etica, nuove patologie tossicomaniche utilizzate come sedativo a questo senso di lutto generalizzato, senso di precarietà nelle nuove generazioni che non vedono orizzonti progettuali realizzabili, divaricazione mai vista prima tra potere dell'alta finanza e povertà assoluta della rimanente parte dell'umanità, ridotta a "consumatrice/schiava" di tale dispositivo economico-capitalistico, sono tutti ingredienti che vanno a formare il background affettivo per la generazione delle narrazioni perturbanti che vediamo proposte e raccontate nelle serie TV che più ci piacciono.

                                      

Emblematica in questo senso è senz'altro The Leftovers, di Damon Lindelof, dalla quale mi sembra giusto cominciare, poiché pone il lutto come principale protagonista di un plot che ci introduce immediatamente in una dimensione melanconica in un senso quasi psichiatrico del termine. Una melanconia descritta in chiave iperbolica potremmo dire, dove la perdita dell'oggetto diventa il motore di tutto ed è perturbante in sè (e come potrebbe non esserlo?). Sul piano tecnico molte sono le sequenze che sottolineano pesantemente tale aspetto di natura francamente depressiva, a partire dal bellissimo primo episodio, con quel carrello della spesa che improvvisamente si sposta da solo mentre là voce di un bambino chiama smarrita: "Papà, dove sei, papà?", il tutto condito da una colonna sonora struggente e architettata ad hoc dall'ispiratisimo Max Richter. Quale perdita più tragica di quella di un padre per un bambino? Naturalmente, sul piano narrativo tutto ciò non é niente di nuovo, basti pensare a Bambini nel tempo, il famoso libro di Ian Mc Ewan, autore perturbante come solo gli inglesi sanno essere. Ma qui il punto é che il tema del lutto, della perdita, della destrutturazione melanconica del soggetto, non è oggigiorno solo roba da intellettuali inglesi continuatori di Virginia Woolf. Questo tema sembra oggi invadere tutto e tutti, al punto che la TV lo fa suo, come se, avendo annusato l'aria che tira, le case di produzione avessero colto l'opportunità di cavalcare subito questo mood che sta investendo l'umanità.



Elemento ulterioriormente significativo è che la qualità di questa nuova estrinsecazione estetico-televisiva del mood depressivo che sta coinvolgendo il mondo occidentale, è incredibilmente buona, pensata e, in buona parte, molto profonda. Anche Stranger Things, dei Duffer Brothers, splendido affresco perturbante sci-fi ambientato negli anni '80, in fondo mette in scena una nostalgia per un passato in cui lo spettatore medio era senza dubbio un bambino, avvolto in una sensazione di eternità delle cose, degli affetti, dell'amicizia e dell'amore. Questo microcosmo caldo e fusionale, all'interno della sceneggiatura di Stranger Things, è messo a dura prova dal "papà"/scienziato pazzo di 11, la bambina superdotata, e quindi questo tecnocrate folle si fa rappresentante di una realtà che diventa Superio sadico distruttivo, rompendo quella bolla di tenerezza nella quale i Duffer ci fanno guardare con nostalgia e tenerezza. Anche qui, dunque, viviamo un lutto rispetto alle "cose andate" che non torneranno, un lutto nei confronti della nostra rassicurante onnipotenza infantile di uomini che pensavano erroneamente l'umanità come un valore stabile, continuò, inestinguibile. Stranger Things (come ancora di più, altre serie televisive odierne, coralmente) ci indica che stiamo tutti vivendo il lutto per la graduale perdita della nostra umanità. Stiamo cioè entrando in un periodo storico-culturale in cui sono attivi processi di de umanizzazione graduale, soprattutto relativamente ad uno scollamento progressivo tra tecnologia e legame affettivo, aspetto che costituisce l'essenza del legame tra esseri umani. Anche Lost, nato dal genio di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, descrive un disastro, cioè quello che in psicoanalisi Wilfred Bion ha definito un "cambiamento catastrofico", non tanto, e non solo, dei passeggeri del volo 815 dell'Ocean Airlines, ma dell'umanità intera che quei passeggeri rappresenta, costretta in un un "nuovo mondo" (cioè in un nuovo tempo) senza più riferimenti, a vivere una perdita irreversibile che li lega e li fa soffrire. Sembrerebbe, cioè, che gran parte delle odierne serie televisive, stia costruendo una mitopoiesi del dolore della perdita, un dolore -questo sembra essere il messaggio che le accomuna – che non é stato vissuto a tempo debito: un dolore mai sofferto, ma, anzi, sempre accuratamente evitato, e che adesso torna a chiedere il conto. Penso che questo aspetto sia centrale nella poetica interna che muove le storie raccontate dalle serie televisive che ci appassionano in questi anni, scalzando decisamente il ruolo del cinema, di cui si sente parlare sempre meno, nei blog, suo social e dovunque. Questo "dolore mai vissuto", a cui non è mai stato dato sufficientemente spazio, che si è sempre cercato di evitare, sembra essere connesso ad una lenta e graduale perdita di umanità favorita essenzialmente dal progresso della tecnica, che pone sempre di più l'uomo su un piano di subalternità e di dipendenza tossica dalla tecnologia stessa, e che si fa onnipervasiva, quotidiana, intrecciandosi strettamente con i diktat dell'economia (un potere economico che a sua volta diventa Superio sadico, come lo scienziato pazzo che vuole sfruttare i poteri di Eleven in Stranger Things, oppure come il misterioso fenomeno della scomparsa improvvisa del 2% di umani dalla faccia della terra in The Leftovers).



Un'altra serie da ricordare perché anch'essa ci parla di un'umanità perduta, è senz'altro Wayward Pines, ideata da Chad Hodge, sulla base dei romanzi di Blake Crouch. Qui viviamo in un futuro in cui l'umanità é davvero estinta e messa a dura prova dall'assalto di mostruosi muta forma geneticamente degenerati e aggressivi. E anche qui siamo sotto il dominio ideologico di uno scienziato pazzo, il dottor Jenkins. Il “visioning” che sottende la scrittura filmica di Wayward Pines è decisamente pessimistico circa la possibilità, da parte dell'uomo, di gestire quel “disagio della civiltà” necessario alla convivenza civile, disagio di cui ci ha parlato Freud nel suo famoso saggio pubblicato nel 1930. Un pessimismo che non è solo di Freud, ma anche quello di molti psicoanalisti contemporanei, primo fra tutti Andréè Green, che non vedono nel progresso della cultura e della tecnica un'antidoto efficace alle spinte distruttive che albergano da sempre all'interno della comunità umana. 



Una delle ultime serie prodotte, Black Mirror, ideata da Charlie Brooker e prodotta da Endemol e Netflix, approfondisce con stile estremo questo intreccio perverso e annichilente tra tecnologia e deumanizzazione, frantumando il genere seriale stesso, e costruendo episodi singoli per ogni puntata, lasciando come unico filo conduttore che li lega l'ambientazione in un futuro tanto iper tecnologico quanto sinistro e paranoiogenico. Il Black Mirror é infatti lo schermo digitale, interfaccia cui costantemente, quasi inenterrottamente, siamo connessi nelle nostre vite. Ogni secondo infatti siamo davanti ad uno schermo (televisione, pc, smartphone, tablet, bancomat, etc), e in ogni luogo ci troviamo (casa, lavoro, metropolitana, automobile, scuola: forse solo in chiesa o su un campo da tennis non siamo in presenza di un qualche "black mirror"). Lo specchio di un gadget tecnologico ci ha ormai definitivamente soggiogato, l'inanimato guida le nostre esistenze e noi abbiamo permesso a questo inanimato di dominarle. L'uccisione lenta, progressiva, dell'umanità sta avvenendo sotto i nostri occhi, attraverso una tecnicizzazione che noi stessi abbiamo permesso. Le serie televisive odierne cercano quindi di recuperare una dimensione affettiva sempre più estinta attraverso un lavoro del lutto operato mediante una mitopoiesi del Perturbante molto profonda, molto sottile quanto utile. Una sorta di terapia collettiva inconsapevole. Tali temi stanno in verità investendo recentemente anche il mondo dell'economia: ho avuto ad esempio notizia che alcune aziende milanesi stanno organizzando corsi di "disintossicazione dall'uso di smartphone" per i propri dirigenti. Non sono novità di poco conto, se una organizzazione professionale utilizza i propri soldi per simili progetti, ciò è segnale di un degrado psichico che comincia farsi preoccupante. Ma torniamo a Black Mirror, ultimo nato della nuova estetica perturbante seriale. Si tratta di un quadro molto crudo della deriva tecnologica quando essa arriva a dominare completamente ogni piano del vivere umano e dell'interazioni tra individui. Per ora ho potuto visionare pochi episodi, per mancanza di tempo, ma ad esempio mi ha colpito il terzo della prima serie, intitolato "Ricordi pericolosi". In esso si racconta di un microchip inserito chirurgicamente dietro l'orecchio di ciascuno, che permette, previo uso di un semplice telecomando, di rivedere su schermi i ricordi delle proprie esperienze recenti e remote. Vi è una sequenza di questo episodio, in particolare, che esprime molto bene i possibili (e reali) effetti di una deriva tecnologica che arrivi ad uccidere il desiderio erotico - obiettivo che la tecnica sta peraltro egregiamente raggiungendo, considerato il proliferare del voyeurismo e dell'esibizionismo pornografico su internet. La sequenza è quella in cui il protagonista sta facendo l'amore con la sua compagna, ma decide di estraniarsi dall'esperienza utilizzando il telecomando che lo riporta ad altri ricordi erotici, che gli permettono di godere dell'amplesso aldilà della sua compagna. La stessa cosa, vediamo, sta facendo la sua ragazza. Qui stiamo parlando di un'esperienza dissociativa auto indotta che è consentita da un dispositivo tecnologico non così lontano da una sua realizzazione, in anni futuri. Una dissociazione che elimina il rapporto umano distruggendone una radice fondativa, quella appunto del desiderio erotico-sentimentale che, come si sa, é una pianta delicata, che ha bisogno di essere curata con attenzione e continuità. Certamente studierò meglio Black Mirror, poiché mi sembra uno sviluppo molto interessante di questo genere di prodotto estetico che, molto più di altri (di certo cinema, ad esempio) dipinge molto bene i tempi che viviamo, aiutandoci ad avere il polso della situazione circa le profonde mutazioni antropologiche che l'umanità sta subendo. Riflettevo in questi giorni sul fatto che Black Mirror sembra infatti sceneggiato direttamente dalla mano di un filosofo come Günther Anders, allievo di Heidegger, che con Heidegger stesso condivideva una certa preoccupazione circa la fragilità dell'Essere Umano. Fragilitá che per Anders consiste nell'incapacità dell'uomo a governare il progresso da lui stesso generato (che sia economico o tecnologico poco importa). Quello di Anders é peraltro un pessimismo radicale, che si intravede già dai titoli di alcune sue opere principali (vedi ad esempio "Patologia della libertà. Saggio sulla non identificazione", 2015; "Noi figli di Eichman", 1995; "L'uomo è antiquato",1963). Anche i sottotesti di molte serie televisive odierne rimandano ad un pessimismo, ad una visione depressiva, luttuosa del vivere, che non si erano mai visti prima in set usualmente dedicati all'entertainment (di solito hollywoodiano, ma oggigiorno soprattutto delle case di produzione televisive e on demand). Sembrerebbe (e questo è un punto a mio avviso centrale) che di questo mood luttuoso che attraversa l'umanità intera, si stia facendo carico solamente questo filone estetico-artistico.



A partire da quel prototipo fondante che è stato a tutti gli effetti Twin Peaks di David Lynch (che non a caso pare stia tornando alla regia della terza serie, e speriamo che veramente così succeda) le serie televisive stanno assumendo la funzione catartica di un grande sogno collettivo, un sogno sognato dai vari Lindelof, Duffer, etc. come tentativo di riparazione, di ricucitura della perdita di quell' umano sentire che tutti noi stiamo quotidianamente soffrendo.