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domenica 18 gennaio 2015

Big Bad Wolves, di A. Keshales e N. Papushado (2013)



Una serie di brutali omicidi fa convergere i destini personali di tre uomini: il padre di una delle ultime vittime in cerca di vendetta, un poliziotto che opera aldilà degli ordini impartiti dai suoi superiori e un insegnante sospettato delle uccisioni. L'incontro di tali destini genererà solo odio... 

Affrontare un tema eticamente così controverso e spinoso come quello della pedofilia attraverso la lente del Perturbante cinematografico, non è certo un'operazione di per sè semplice. Farlo poi con uno stile ironicamente "tarantiniano", anzi sarebbe forse meglio dire "tarantinoso", a me non è sembra un buon metodo, quantomeno dopo la visione di questo recente film del duetto Keshales/Papushado, che aveva già diretto l'interessante quanto non eccelso "Kalevet" nel 2010. 

Sul piano della pura estetica registica il film non fa una grinza. E' condotto con mano raffinata, con una tempistica sequenziale che fa venire in mente i movimenti felpati di un gatto sornione che attende il topo all'uscita dalla tana provvisoria in cui lo ha costretto durante una lunga e divertita caccia. Fotografia (di Bejach) e sonoro (di Frank Kayim Ilfman)  fanno la loro egregia parte, soprattutto il primo comparto, iperilluminato negli esterni di un paesaggio israeliano che a tratti ricorda l'orto dei Getsemani biblico, e dai toni rugginosi negli interni durante le sequenze della tortura. Forse il montaggio poteva essere organizzato in maniera più fluida e con un andamento più rapido, soprattutto nelle sequenze dei passaggi in automobile dalla città alle remote zone di campagna dove il professor Dror, il sospettato di essere il pluriomicida, viene segregato. Ma aldilà di questo aspetto, potremmo dire isolato,  l'impianto estetico-filmico complessivo risulta molto curato, preciso in modo quasi manieristico in ogni dettaglio. 

No, no, "Big Bad Wolves" non è portatore di alcun problema tecnico di sorta. I suoi problemi nascono invece da un'incrocio di stilemi narrativi attraverso i quali Keshales e Papushado vogliono veicolare dei contenuti molto forti, nello specifico riguardanti il tema del conflitto etico. Tema non da poco peraltro, tema al limite del filosofico, tema che aggetta molto oltre l'entertainment perturbante cui siamo usualmente abituati. Nel momento in cui i due registi fanno convergere i destini del padre vendicatore e del poliziotto caratterizzato da un'etica biblica da legge del taglione, introducono una conflittualità potente che spinge lo spettatore ad un gioco delle tre carte irrisolvibile, sovrumano. Da qualsiasi parte lo spettatore si ponga rispetto ai tre personaggi, si trova infatti sempre di fronte a un labirinto senza uscita, ad un muro: infatti tutti e tre sono colpevoli (ma allo stesso modo? E cosa significa "allo stesso modo"? Secondo quale scala?). Ciò è interessante, e fa riflettere anche sulla cultura (ebraica) dalla quale nasce questo film, sulle sue scissioni, sui mille chiaroscuri che la caratterizzano, sui lutti storici che la fondano, sul senso di persecuzione transgenerazionalmente vissuto e tramandato, e potremmo andare avanti per molte pagine su questo versante della lettura del film. 


Il problema di "Big Bad Wolves" sta da tutt'altra parte, e sta nell'insistito uso del registro ironico. Prendiamo una sequenza a caso e seguiamone lo svolgimento. Siamo nello scantinato in cui Dror è recluso, legato ad una sedia, imbavagliato. E' accusato di aver seviziato e ucciso ragazzine di otto-dieci anni, seducendole preliminarmente con dolci e leccornie imbottite di sonniferi. Una di queste è la figlia di Gidi, il padre torturatore. Gidi impugna una pinza e sta per strappare le unghie del piede destro di Dror dopo avergli tolto con cura scarpa e calzino. Il pathos è notevole, drammaticamente toccante. Ma ecco che squilla il telefono di Gidi: è la vecchia madre dell'uomo, una petulante, invadente madre ebrea, come solo le madri ebree possono essere invasive e petulanti. La sequenza si spegne e si riaccende di altra e ben diversa luce nella cucina del cottage, nella quale Keshales e Papushado ci raccontano il lungo dialogo tra un figlio 45enne e una vecchia madre che lo sgrida come si fa con un bambino. 

Molti potrebbero dire che questo uso dello spegnimento del pathos attraverso l'iniezione di un' ironia (la telefonata della mamma di Gidi), che stempera e alleggerisce momentaneamente la tensione, sia un accorgimento geniale, derivato dal magistero di Tarantino. Una modalità, cioè che integra molti dati provenienti da zone interessanti e sommamente creative della storia del Cinema. Non è la mia opinione. Io credo non si possa (appunto per motivi etici), ironizzare per nessun motivo su temi così psicologicamente delicati e complessi come quello della pedofilia (per giunta omicida). Se vuoi fare un film in tema di vendetta, anche prendendo come argomento la pedofilia, fallo pure.  Kim Ki-duk lo fa egregiamente ad esempio rispetto al tema dell'incesto nel suo ultimo "Moebius", la cui mia recensione potete leggere qui, ma Kim Ki-duk non ironizza affatto, anzi calca la mano su toni shakespeariani, beckettiani, problematizzando il tutto in modo radicale e corrosivo. Non è certo il caso di Keshales e Papushado, che mettono in scena un dramma pesantissimo facendolo interpretare come da pagliacci da circo. Il detective Micki sembra infatti una specie di Tenente Colombo muscoloso e incazzato col mondo, senza possedere la leggerezza e serietà di metodo di Colombo stesso. Vi par poco? Il secondo pagliaccio, Dror, il padre, non estrinseca alcun tipo di pathos drammatico e si limita a dare badilate sulla testa a questo e a quello, pur di portare avanti la sua mira ultimativa, cioè la tortura come mezzo per estorcere una confessione. E pensare che gli hanno appena ucciso barbaramente la figlia... Non si tratta qui di tirare in ballo la manzoniana "verisimiglianza". Siamo dalle parti di Tarantino, non dimentichiamocelo. Ma il punto è che i due registi israeliani appaiono appunto più interessati a sembrare dei bravi allievi del regista di Knoxville, più che a portare avanti un discorso personale che faccia del Perturbante un veicolo di riflessione filosofica o sociale.

Visionando il film mi è venuto in mente per contrasto "Martyrs", di Pascal Laugier. Il tema della violenza, della tortura, del fondamentalismo (anche religioso, ma non solo), così attuale oggigiorno e non solamente dopo i fatti di Charlie Hebdo, sono trattati da Laugier con una raffinatezza di visione così sublime e poetica che Keshales e Papushado sembrano al confronto due studenti di un corso di scrittura creativa di fronte a una poesia della Szymborska. E' vero, i dialoghi tra carnefici e vittima sono molto ben costruiti, e come in una piece teatrale, pur mantenendo un andamento molto finemente cinematografico. E' altresì vero che tutto si regge sulle spalle di tre soli personaggi che  tengono in piedi tutta la giostra, accompagnati da ottimi piani medi, primi piani e carrellate lungo i corridoi della cantina maledetta. Tutto questo tuttavia non basta a trasformare l'ironia macabra in riflessione davvero profonda. Neppure l'arrivo in scena del padre di Gidi con il conseguente lungo dialogo tra i due, produce significativi viraggi in senso positivo (non parliamo poi del punto in cui il nonno parla dei suoi problemi di colesterolo mentre armeggia con la fiamma ossidrica: altro uso dell'ironia inutilmente e presuntuosamente ossimorico). 

Mi fermo qui, e in sintesi credo che quest'opera di Keshales e Papushado sia un'occasione davvero sprecata per un tipo di cinema che vorrebbe magari prestarsi come testimonianza artistica rispetto a temi importanti che coinvolgono il piano etico su cui si fonda una comunità sociale. Potrei scrivere ancora molte cose circa il tema della pedofilia, non tanto perché ne sappia molto sul piano scientifico, anzi, ma appunto per dire che si tratta di un tema che occorrerebbe invece lasciare tutto nelle mani di chi lo studia con rigore, piuttosto che appropriarsene in modo parassitario per fare il verso compiacente al signor Tarantino. 

"Big Bad Wolves" è un film la cui visione non mi sento assolutamente di consigliare. 

Regia: Aharon Keshales e Nivot Papushado    Soggetto e Sceneggiatura: Aharon Keshales e Nivot Papushado    Fotografia: Giora Bejach   Musiche: Frank Kayim Ilfman   Montaggio:  Asaf Korman Cast: Tzahi Grad  , Lior Ashkenazi , Rotem Keinan, Doval'e Glickman, Menashe Noy, Dvir Benedek, Nati Kluger, Kais Nashif, Ami Weinberg, Guy Adler, Arthur Perry, Gur Bentwich Nazione: Israele   Produzione: United Channel Movies, United King Films  Durata:  110 min. 


9 commenti:

  1. forse è la prima volta che sento di non essere d'accordo con te...secondo gli intermezzi ironici , dei veri e propri contrappunti sono usati splendidamente per sottolineare l'insensatezza della violenza...a me è piaciuto molto...

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  2. @ Bradipo: infatti l'ho detto che molti (tu tra questi) potrebbero non essere d'accordo con me circa la mia interpretazione dell'uso del registro ironico all'interno dello script. Apriamo un dibattito :)

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  3. Mi accodo al Bradipo... anche io ho per una volta tanto non riesco a essere d'accordo. Più che altro credo che non sia la pedofilia il centro del film, quanto l'analisi di una società del tutto assuefatta alla violenza. E infatti la reazione del padre alla morte della figlia, così indifferente e, allo stesso tempo, vendicativa, è indice di questa assuefazione.
    E non penso neanche sia uno scimmiottamento del cinema di Tarantino. L'ironia, almeno nella mia esperienza di spettatrice, non ha stemperato il disagio, lo ha aumentato.

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  4. No, dai.
    L'ironia serve sempre e comunque. Si può discutere del fatto che qui sia usata bene (a mio parere sì), ma che a priori ci debbano essere degli argomenti tabù su cui non si può scherzare va contro tutto ciò in cui io credo.
    Giusto per essere un pochino melodrammatici ed esagerati :)

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  5. @Lucia, @Marco: Che bello, non siamo d'accordo! La difformità del pensiero è molto vitale, anzi è il sale della vita. Organizzo un pò meglio le idee poi vi articolo una risposta articolata e complessiva. Grazie per i vostri commenti.

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  6. Urca, mi sa che mi unisco al coro ;) Io sti due qua li adoro a partire dalla loro prima opera fino all'apparizione in ABC's 2.
    Il male inteso in questo film ti viene iniettato in vena a dosi di ironia, che io ho trovato perfetta. Poi magari sono troppo sbilanciato nella mio solito fan-loving ma oh, tant'è...

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  7. Grazie Eddy per la visita. Ma il tuo blog non lo curi più? Che peccato! Dai. riprendi in mano la penna. Rispetto a questo film ho promesso a tutti un commento più articolato che emetterò a breve. Ciao e Buon Anno :)

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  8. Ma sei sicuro di aver visto proprio questo film??
    Uno dei piu' belli degli ultimi anni...gente guardatelo e poi ditemi...anzi...diteci...

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  9. Ne scrissi ormai tempo fa. Sarà che non sono più da molto tempo un fan di Tarantino (ormai lo detesto) che ricordo che più o meno scrissi che l'unico modo per me (sottolineato 300 volte) per digerire un film simile, pur meritevole tecnicamente, era quello di aggrapparmi a una lettura politica. Visto da quella prospettiva il film assume ben altri connotati di critica interna rispetto a uno stato paranoico che non riesce più a proteggere neanche i propri figli. Qualcuno mi ha detto che sì, i loro film vanno interpretati in modo politico e il bel corto per ABC's of the death 2 conferma questo percorso. Privato di una chiave di lettura politica per gusto personale apprezzerei solo le qualità tecniche perché l'ironia a un certo punto l'ho trovata talmente insistita e stucchevole che capisco il tuo "pagliacci". Ma io al cinema rido quando la gente si commuove, magari non faccio testo.

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