Pagine

giovedì 24 aprile 2014

Oculus, di Mike Flanagan (2013)


Circa dieci anni dopo la tragica morte dei loro genitori, Kayle Russel e suo fratello Tim tornano nella casa dove si è consumato sotto i loro occhi quel terribile evento. Kayle è sempre stata convinta che suo fratello, ritenuto colpevole della morte del padre, fosse innocente, e ora che Tim è uscito dal carcere minorile dove ha scontato la sua lunga pena, è decisa a dimostrare che la causa della loro traumatica infanzia risiede in uno specchio antico e stregato. Armata di telecamere e altri ausili tecnologici la ragazza è pronta a tutto pur di dimostrare la sua tesi, nonchè l'innocenza del fratello. Chiusi nella vecchia casa della loro infanzia, i due fratelli daranno inizio ad una lotta micidiale contro il malefico specchio...

A dispetto dei dotti pareri di molti "barbagianni lacaniani" sempre alla ricerca della Verità e soprattutto del "vero" Perturbante freudiano nel cinema, "Oculus", secondo lungometraggio di Mike Flanagan (dopo il notevole "Absentia", 2011), credo sarebbe certamente stato inserito da Freud come elemento di indagine per il suo famoso saggio sul Perturbante (1919). E lo penso almeno rispetto al significato cui personalmente uso dare a tale termine applicandolo ad un film (su cosa intendo per "perturbante" nel Cinema, in particolare horror, ma non solo, invito alla lettura, per chi ne avesse voglia, della mia lunga recensione a "Them" di Xavier e Palud pubblicata sul sito della Società Psicoanalitica Italiana, che trovate qui). 

Ma andiamo con ordine: innanzitutto ci troviamo davanti ad un oggetto inanimato (uno grande specchio che ha più di 300 anni), capace di animarsi e generare atmosfere da incubo all'interno del suo raggio di azione ambientale. In seconda istanza abbiamo a che fare con un intreccio di relazioni familiari all'interno del quale spicca il rapporto tra un fratello e una sorella di circa 10-12 anni (il tema della "fratria" è caro a Flanagan, e lo abbiamo visto svilupparsi in modo altrettanto inquietante nel film "Absentia". Ma ci torniamo sopra fra poco, perché è un tema molto importante). Con questi due soli ingredienti (oggetto inanimato + rapporto tra fratelli), posti in dialettica tra loro, Flanagan riesce ad allestire un diorama allucinatorio e demoniaco degno di un Hoffmann, producendo atmosfere angoscianti senza ricorrere ai soliti mezzucci tecnici hollywoodiani che ben conosciamo. 

Come avevamo già felicemente notato nel suo film del 2011, il regista di Salem, Massachusetts,  è capace di costruire il plot mediante la rappresentazione di rapporti familiari nei quali la parte da leone la fanno soprattutto i dialoghi, sottolineati da primi piani illuminati in modo diafano e surreale, tra i componenti della famiglia, la cui disgregazione affettivo-emotiva viene descritta con graduale, lenta ma inesorabile senso di ineluttabilità. In tale prospettiva sono presenti nel film rimandi sottili, delicati e non compiacenti o fatti in malafede, a "Shining" di Stanley Kubrick.  

Ma è il tema del rapporto fraterno (come accennavo più sopra) che viene qui sviluppato da Flanagan con una finezza psicologica così particolare, a risultare, almeno ai miei occhi, il vero, piccolo capolavoro interno ad un film che ha peraltro anche alcuni ovvi difetti, di cui parleremo dopo. Attraverso un montaggio morbido e ottimamente concatenato (di Flanagan medesimo), il regista ci fa oscillare continuamente tra flashback risalenti alla traumatica infanzia di Kayle e Tim, e il racconto presente del rapporto ritrovato tra due fratelli separati per più di 10 anni. Tale oscillazione diventa una vera e propria regressione percettiva ed emotiva costruita sul registro del climax. Un andamento accompagnato da una colonna sonora cupissima e incisiva ma mai strillata, mai invadente. All'interno di questa frammentazione dei piani temporali, Flanagan riesce a mantenere comunque sempre a fuoco la relazione fraterna, mediante dialoghi molto espressivi, nei quali risaltano gli aspetti di conflitto, rivalità, ma insieme di profonda intimità tra i due, nonché la posizione di "saggia sorella maggiore", protettiva e determinata, che riveste Kayle. E questo vale sia per i due fratelli del presente, che per i due fratelli da bambini (un plauso ai piccoli Annelise Basso e Garrett Ryan Ewald, diretti con delicata maestria, ma anche di per se stessi davvero bravi, accidenti). 

Con poche, millimetriche battute buttate lì con il giusto timing, Flanagan ci fa sentire l'intenso rapporto che lega un fratello e una sorella naturalmente molto diversi tra loro come tutti i fratelli, ma uniti da una stessa origine attraversata da un trauma praticamente impensabile, non ri-attraversabile sul piano dell'elaborazione psichica. Il regista ci fa toccare con mano i differenti stili caratteriali, le differenti posizioni circa quel passato, le modalità difensive, le piccole fobie, il diverso modo di percepire ed affrontare i problemi, il diverso modo di ricordare. Sebbene il tema del "fraterno" trovi anche in psicoanalisi poco spazio, Freud ne parla comunque in almeno tre sue opere: L'interpretazione dei sogni (1899), Il romanzo familiare dei nevrotici (1908) e, più estesamente in Totem e Tabù (1912-13), rilevandone naturalmente il ruolo di sostituto relazionale del complesso edipico, e sottolineandone la caratteristica di legame particolare, unico nel suo genere, all'interno delle relazioni d'amore. Se infatti il fratello-o la sorella- sono i primi nemici che il bambino incontra sulla sua strada, la relazione fraterna è anche quella in cui il gioco dell'identificazione e dell'amore è più stretto. 

Flanagan sembra aver letto Freud molto attentamente, soprattutto se vogliamo guardare al finale spiazzante, drammatico, del film: amore e odio fraterni si mescolano qui come in un velenoso e insieme saporito cocktail che ci tramortisce obnubilandoci la mente. Allo spettatore accade cioè la stessa esperienza di mordere una mela scoprendo che invece è una lampadina che ci fa sanguinare i denti (come accade a Kayle nella memorabile sequenza della mela che diventa lampadina, appunto): il rapporto fraterno, sembra dirci Flanagan (come ci dice chiaramente anche Freud) è proprio come lo vediamo raffigurato metaforicamente in quella sequenza. E' un legame di sangue, nel senso che si fonda su una ferita narcisistica, sul vissuto di gelosia rispetto al non poter possedere, tutti per sè, i genitori. Non a caso lo psicoanalista francese Pontalis, parlando del fraterno, lo descrive come legame di frérocité, parola intraducibile in italiano, che fonde frère (fratello) con férocité (ferocia). Flanagan, attraverso il suo film riesce ad evocare il fraterno come metafora principale del legame di solidarietà umana, e insieme come esempio assoluto di discordia e morte (vedi la sequenza finale). 

Certo, il film evidenzia alcune ingenuità dello script, prima fra tutte la rappresentazione dell'esperienza traumatica dei due fratellini,  trauma familiare abnorme, che travolgerebbe in pochissimo tempo chiunque, paralizzandone in modo dissociativo qualsiasi reazione. Ma Flanagan sa che noi sappiamo che  lui ci sta raccontando una una fiaba macabra sul rapporto fraterno, e nelle fiabe può accadere di tutto. 

Film molto onirico, molto profondo, stratificato, valutabile secondo varie ermeneutiche (si potrebbe ad esempio vedere in chiave di rappresentazione di angosce primitive impensabili, trasmesse di generazione in generazione; oppure come riflessione sull'assenza di sguardo-oculus materno come causa di disorientamento, di crollo o non integrazione del Sè, e così via), Oculus rappresenta una notevole, pregevolissima prosecuzione elaborativa dei temi perturbanti abbozzati da Flanagan nel suo primo film (Abstentia). Consigliato, anche, se non soprattutto, per una riflessione non banale in tema di "legame fraterno".   

Regia:  Mike Flanagan   Soggetto e Sceneggiatura: Mike Flanagan, Jeff Howard   Fotografia: Michael Fimognari    Montaggio: Mike Flanagan    Musiche: The Newton Brothers    Cast: Karen Gillan, Brenton Thwaites, Katee Sackhoff, Rory Cochrane, Annalise Basso, Garrett Ryan Ewald     Nazione:  USA  Produzione: Intrepid Pictures, Blumhouse Productions, WWE Studios    Durata:  105 min.  

domenica 13 aprile 2014

[Sogni e visioni] Monumenti di Memorie

[Inauguro con questo post, un nuovo  tag di cui avevo parlato all'inizio dell'anno]




Siamo monumenti di memorie sedimentate che ci muovono dall'interno, crittografie di linee e ponti e collegamenti con ciò che anticamente ci ha dato origine. Origine che permane nel suo dileguarsi paleontologico, nella sua deriva di tempo che pure mantiene sottili fili di sonda, echi di sonar, palombarità dissimulate in movimenti in superficie. Siamo sedimenti che oscillano come quadri di Arcimboldo, un pò disegnati da noi stessi, ma in gran parte da un lontano ecosistema che ci attraversa, ecosistema tutto intrecciato di leggere ombre e suoni e sbuffi e ooooh, e aaaah, e ghirighirighiri, guarda l'orsetto! dormi dormi bel bambino, un frullio di tende di trine che lo sguardo rincorre insieme allo zigzagare delle forme della carta da parati sbiadita color albicocca e mio padre che ascolta la domenica mattina il Trovatore mette sul giradischi dischi di vinile e partono i suoni del coro o l'ouverture. Siamo profonde lunghe disseminate stratificazioni di oggetti, ammoniti, trilobiti dell'anima sulle nostre Dolomiti quotidiane, cercando il dolo più mite, non come quando, allora, le faglie stridevano l'una contro l'altra e il lupo nero era un vero lupo, e il ragno appeso nel corridoio buio era un mostro avido, e la straga di Hansel e Gratel mangiava i bambini sul serio e Frankenstein faceva capolino nella sua maschera grottesca sulla soglia della camera dove i nostri letti a castello di metallo arancione luccicavano sotto le luce della tua scrivania sulla quale tenevi gelosamente le cassette dei Deep Purple, dei Santana, dei Queen. Ogni tanto, nel silenzio di queste stanze attraversate dal vento ancora caldo dell'estate, ritrovo qualche fossile, la foto in bianco e nero, la vecchia pipa di mio nonno, il barattolo di alluminio leggerissimo dove mia madre metteva lo zucchero, il tavolo del tinello con su il vetro verdino, e sotto il vetro intravedevi, come in un acquario attraversato dalla luce primaverile, le figurine romantiche della caccia alla volpe, dei cani, dei corni e dei cavalli, aggrovigliati tutti insieme in un evanescente aurorale sottobosco inglese dello spirito, che si muove nel suo tempo transeunte.

sabato 5 aprile 2014

Dark House, di Victor Salva (2014)



Nick è un ragazzo molto speciale: quando il suo corpo entra in contatto con quello di un'altra persona, egli è in grado di vedere come quella persona morirà. All'inizio della storia Nick viene chiamato da sua madre che è rinchiusa in un ospedale. Qui la donna gli rivelerà che suo padre, che era stato dato per morto, in realtà è vivo, ed è la causa di tutti i mali della loro disgraziata famiglia. Ma questo padre-fantasma è forse l'unico a conoscere la causa profonda dei poteri paranormali di Nick. E' così che Nick decide di intraprendere un viaggio per scoprire dove si è nascosto suo padre. Durante il viaggio lo accompagneranno il suo migliore amico, Ryan e la sua fidanzata Eve, incinta e ormai quasi al termine della gravidanza. Durante il viaggio i ragazzi si troveranno di fronte ad una grande casa abbandonata immersa nei boschi: è la stessa casa che lui disegnava da bambino, e che credeva fosse il frutto di una sua fantasia. Ma ciò che più atterrisce Nick e i suoi compagni è il personaggio solitario e molto aggressivo che vive all'interno della casa. Si tratta di una figura inquietante, dai lunghi capelli sporchi e che impugna un'accetta. Riusciranno i nostri eroi a sopravvivere a tutto questo e a svelare il terribile segreto che si nasconde all'interno della casa?

Diciamolo fin da subito: ci aspettavamo qualcosa di molto diverso da quest'ultima prova di Victor Salva  , il mitico filmaker di "Jeepers Creepers" (2001), e "Jeepers Creepers 2" (2003)(un'ultima prova attesa con una certa, giusta curiosità). Invece il film è sciaguratamente, inaspettatamente deludente, per i motivi che andiamo di seguito enumerando. Non sappiamo se tale delusione dipenda dalla sceneggiatura, affidata non si sa perché, al giovane debuttante Charles Agron, alla sua prima prova in assoluto, ma il dubbio che dipenda proprio da tale scelta, rimane.   

1. Il soggetto. Salva si incarta immediatamente come una mosca appiccicata su una striscia di carta moschicida, su un soggetto bizzarro, sbilenco, appesantito da gravami stereotipici stantii (la haunted house, il bosco, l'accetta, il villain rurale violento e via dicendo), che poi il regista non sa più come alleggerire, bonificare, trasformare creativamente. Il film diventa così, ben presto, come una sorta di liofilizzato cui bisognerebbe saggiamente aggiungere del brodo, ma il minutaggio non lo consente: infatti come si fa a girare un horror superiore ai '90 minuti consueti? Dopo la sequenza iniziale del fuoco che divampa dall'abbraccio tra madre e figlio, che fa ben sperare, che colpisce, che emoziona, tutto successivamente si attorciglia pesantemente, proprio come il grande albero misterioso che cresce addossato alla casa che Nick e i suoi amici trovano durante il loro peregrinare lungo la Route 68. L'idea stessa di un ragazzotto qualunque posseduto da poteri paranormali che gli permettono, al tocco, di prevedere la morte di chi gli sta vicino, non convince, non si spiega, e appare appunto scelta bizzarra. 

2. Lo script. Lo sviluppo del soggetto, fino ad un certo punto sembrerebbe interessante e abbastanza ben congegnato. Ad esempio la sequenza del drugstore nel quale i ragazzi incontrano gli strani, curiosi autoctoni all'inizio del film, è visivamente molto ben curata e i personaggi ivi presenti sono molto caratteristici, a modo loro inquietanti quanto basta. Anche la sequenza in cui i protagonisti, tornati nel villaggio, non vedono anima viva nello stesso drugstore chiuso, mentre l'inquadratura in interno mostra che il locale è affollato, possiede una sua forza straniante, certamente perturbante, e rimanda a certe atmosfere alla King dei tempi migliori. La costruzione della narrazione filmica procede bene anche durante il primo attacco boschivo da parte dell'"armata dell tenebre" guidata da Tobin Bell, il cattivone, con quelle accette che roteano fischiando tra i rami, e colpiscono nei punti giusti le prime vittime. Qui però si chiude il felice esordio della fiaba horror che Salva vuole raccontarci. Da circa metà pellicola infatti tutto si appiattisce inesorabilmente e si "liofilizza", come riferito al punto 1. Il film diventa un miscuglio di stereotipie cinematografiche di genere, e chi guarda non sa mai bene se si trovi dalle parti di uno slasher, di un haunted house movie, o di cosa. Momenti di vero spavento come Dio comanda non se ne provano affatto. La casa è poi semplicemente un pretesto ambientale, una quinta teatrale come un'altra per poterci far ballare dentro gli attori di una storia confusa, vuota e che non cattura. 

3. La regia. "Jeepers Creepers" giocava molto, registicamente, con gli elementi della sensorialità e della pulsionalità adolescenziali, elementi su cui Salva faceva aleggiare la morte, una morte che poi piombava dall'alto, nascosta in mezzo ai campi di granturco. Notevole ispirazione e saggio, innovativo uso del simbolico perturbante, in quel film. I movimenti di macchina erano fluidi, larghi, giocati su piani medio-lunghi che riprendevano dall'alto il veicolo su cui viaggiavano i teenegers in viaggio. Una regia molto nuova, ariosa, che sapeva rendere terrorizzante un semplice campo coltivato, nel silenzio estivo della campagna americana. "Dark House" non vede nulla di questa perizia che Salva aveva mostrato così epifanicamente in "Jeepers Creepers". La cinepresa sembra qui inscatolata e paralitica, complice un'ambientazione instabile, sempre frammentata tra boschi, casa maledetta, suv, automobili in viaggio. A un certo punto viene da rivolgersi a Salva per dirgli: "decidi dove stare, Jesus Christ!". Ma lui non si decide. Vaga. Stabilizza primi piani nei dialoghi, poi muove velocemente la macchina lungo i muri tra un condotto di areazione e l'altro per seguire la voce del demone nascosto nella casa, per poi soffermarsi nell'abitacolo del caravan dove Ryan e la sua amica amoreggiano (peraltro dopo essere stati attaccati da un'orda di barbari armati di scure, così, come se niente fosse). In sintesi si capisce lontano un miglio che Salva non ha affatto il polso della situazione rispetto a ciò che sta girando. 

4. Fotografia, Sonoro, Make-up e CGI. Tutti i comparti che usualmente servono ad abbellire l'impalcatura di un film, in particolare fotografia e sonoro, non producono qui, in verità, nulla di particolarmente significativo. Fotografia (di Faunt LeRoy) e musiche (di Salvay) incidono assai poco. Forse sole le sequenze di attacco dei selvaggi armati di accetta sono accompagnati bene da un sottofondo musicale incalzante e indicato, ma in fondo anche questo elemento dello script si perde nell'andamento ondivago della narrazione complessiva. Make-up ed effetti speciali non sembra poi interessino molto a Salva, e francamente non si capisce perché faccia indossare all'esercito tenebroso dei wind-coats stile Driza-Bone australiano. Forse perché hanno freddo nel bosco? Mah. 

Poco, pochissimo da dire sul cast, che non si merita uno spazio specifico nell'elenco numerico svolto sin qui. Tutti attori poco significativi, compreso Tobin Bell, che certamente era più a suo agio nei panni di Jigsaw nei vari "Saw" che ben conosciamo. 

E' dunque possibile comprendere "Dark House" solo se lo guardiamo come uno scivolone davvero sgradevole da parte di un regista che aveva dato un suo contributo interessante al genere cinematografico Perturbante. Il film è inoltre sin troppo tirato per le lunghe pur non coinvolgendo minimamente lo spettatore, nè tanto meno  iniettandogli una qualche minimale dose di inquietudine, come invece ci saremmo aspettati. Il prefinale del film ci fa arrancare attraverso i futili dialoghi tra le donne del gruppo, dialoghi che poi si risolvono in colpi di scena drammaturgicamente debolissimi. Il finale è confusissimo, inutilmente caotico, strillato, come se Salva avesse voluto improvvisamente risollevare in extremis le sorti di un'opera ormai completamente alla deriva. Ma, si sa, la somma delle parti non mai uguale al tutto, e la gestalt globale del film rimane ciò che è, ferma nella sua generale inconsistenza, nonostante i colpi di coda finali. 

"Dark House", come avrete abbondantemente compreso, è purtroppo una pellicola che sconsiglio, e che anzi suggerirei proprio di evitare. 

Regia: Victor Salva Soggetto e Sceneggiatura: Victor Salva, Charles Agron   Fotografia:  Don E. Faunt LeRoy  Montaggio: Ed Marx   Musiche: Bennett Salvay   Cast: Tobin Bell, Luke Kleintank, Alex McKenna, Anthony Rey Perez, Zack Ward, Lacey Anzelc, Ethan S. Smith, Lesley-Anne Down   Nazione: USA   Produzione: Charles Agron Productions   Durata: 90 min.