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sabato 25 maggio 2013

Dark Skies, di Scott Charles Stewart (2013)



Chi sta perseguitando la famiglia Barrett? Chi è "l'uomo dei sogni" che invade le notti del loro figlio più piccolo, Sammy? Con gradualità inesorabile la vita dei Barrett si trasformerà in un vero incubo, contrassegnato da esperienze sovrannaturali inspiegabili...

"Dark Skies" parte bene, soprattutto lungo tutti i titoli di testa, con quelle immagini di quotidianità della media borghesia americana che vive soleggiati e sereni week-end mentre i bambini sguazzano nelle piscine delle loro linde villette di provincia, con gli amici di famiglia venuti a cena con le figlie adolescenti a fare gossip sugli amanti di varie altre conoscenze comuni, e così via. Sto dicendo che il film fa ben sperare, anche dopo i titoli di testa, almeno fino al ventesimo minuto, dopodiché si sfalda letteralmente a causa di una sceneggiatura che si porterà sulle spalle fino alla fine della pellicola tutte le colpe di un disastro narrativo davvero cospicuo. Man mano che i fenomeni "paranormali" iniziano ad entrare in scena, assistiamo a dialoghi familiari, in particolare tra genitori e figli, ancora abbastanza convincenti. Poi, quando lo script vira nei territori pseudo perturbanti di un alien-horror criptico quanto simultaneamente banale, anche le interazioni tra i personaggi si sfilacciano, e soprattutto la relazione tra marito e moglie (Lacy e Daniel) diventano surreali e comunque assolutamente non credibili. Ma è appunto la sceneggiatura, cioè l'architettura narrativa del film, ricordiamolo bene, il punto debole, la faglia sommersa instabile che genera tutti i terremoti possibili cui assistiamo in superficie: una narrazione lenta, diluita, che qua e là ci mostra piccoli colpi di scena esattamente là dove ce li aspettiamo, cercando di pescare negli inutili stilemi di un deja vu che non è neppure capace di utilizzare (certe atmosfere ricordano ad esempio "The box", di Richard Kelly, 2009, film peraltro piuttosto superfluo nel panorama sci-fi-horror contemporaneo; in altri punti si riprende addirittura l'Hitchcock de "Gli uccelli", 1963, con una presunzione di cui non sia ha la benché minima consapevolezza). Il film si stira e tira in lungo e il largo tentando vanamente espedienti perturbanti di varia natura, nonché evocando sottotesti psico-sociologici come quello della solitudine adolescenziale di Jesse, il figlio più grande. Ma tutto è inutile: ogni tentativo di rianimare l'oggetto inanimato si rivela sterile e privo di qualsiasi verve, sia dal punto di vista del puro intrattenimento, che da quello della suspense. In "Dark Skies" nulla è perturbante, tutto è terribilmente ampolloso, e il finale è una summa di tale futile ampollosità, con quel "colpo di scena" da terzo atto horror che fa solo cadere le braccia, e non solo quelle. La caratterizzazione psicologica e la scelta di casting sono due ulteriori elementi che azzoppano ancora di più il film, se ce ne fosse stato bisogno: Josh Hamilton, il padre, viene ripreso da Stewart attraverso primi piani in cui dominano i suoi occhioni sgranati e amorevoli da buon capofamiglia che guarda l'erba del vicino sempre più verde della sua, e l'effetto generale è quello di una mielosità nauseante, anche quando Hamilton cerca di mettere in scena il dramma di un architetto al limite della disoccupazione più nera in tempo di crisi. Il suo girovagare da uno studio all'altro proponendo i suoi disegni possiede meno spessore drammatico di una puntata dell'Ispettore Derrick, e rimanda ancora una volta ad un tasso di presunzione piuttosto elevato da parte del regista che è anche responsabile della sceneggiatura. Infatti ci si domanda subito come sia possibile pretendere di innestare su uno script del genere anche l'ipotesi di una riflessione sociale sulla crisi economica mondiale che stiamo attraversando. Tale riflessione passa immediatamente in secondo e terzo piano, assorbita dalla melassa alienoide che Stewart spalma su tutta la pellicola, nonché da una caratterizzazione paterna psicodramatizzata da Hamilton in un modo che definire opaco è un eufemismo. Keri Russel, mamma Lacy, si pone sulla stessa linea del marito: è colta da sonnambulismo durante il suo lavoro di agente immobiliare, sbatte la testa contro i vetri di una casa che deve vendere a dei clienti, scorge alieni vaganti nella camera da letto di suo figlio Sammy, vede il marito in stato catatonico nel giardino di casa, scopre lividi a forma di disegni da Star Trek sul corpo dell'altro figlio Jesse, ma alla fine mantiene una freddezza che anche Buddha le invidierebbe, e che ovviamente non può convincerci. Durante questo lavorìo monocorde sul quartetto familiare Stewart forse si accorge di annoiarsi da solo, quindi introduce una sorta di deus ex machina improvvisato, cioè il signor Pollard (K.K. Simmons), lo studioso di alieni, dalla faccia da allevatore di bovini dell'Arkansas, che appunto vorremmo che tornasse nella sua fattoria perché le sue povere mucche hanno fame. D'altra parte sono perfettamente consapevole che da una casa di produzione come la Blumhouse non potevamo aspettarci finezze cinematografiche particolari, anche a guardare alcuni titoli recentemente in post produzione, per non parlare di quelli già prodotti (vedi: "Le Streghe di Salem" di Rob Zombie, "Paranormal Activity", di Oren Peli, forse l'unico titolo ancora guardabile, ma non certo così fondamentale per la storia del cinema perturbante). In sintesi "Dark Skies" insegue la chimera di aggiungere un tassello al genere horror-sci-fi ma non centra affatto il bersaglio. Al contrario deraglia quasi subito sui binari della scontatezza e della noia. Da evitare. 
Regia:  Scott Charles Stewart  Soggetto e Sceneggiatura: Scott Charles Stewart    Fotografia: David Boyd    Cast: Keri Russell, Josh Hamilton, Annie Thurman, J.K. Simmson, Dakota Goyo, Jake Brennan, Trevor St. Jhon    Nazione: USA    Produzione: Alliance Films, Blumhouse Productions   Durata: 97 min.    

sabato 18 maggio 2013

Aftershock, di Nicolàs Lòpez (2012)





Gringo, giovane trentenne rampante americano, insieme ai suoi amici cileni Kylie, Pollo,  Irina, Ariel e Monica, stanno vivendo meravigliosi giorni di vacanza nella movida di Santiago del Chile. E' l'Estate australe, i cieli sono tersi e i ragazzi passano serate di ballo e di sballo in giro per le più note discoteche della capitale. Ma proprio quando si trovano nel bel mezzo di una festa in discoteca, un terrificante terremoto porta distruzione e morte sull'intera costa cilena, devastando la città e trasformando i suoi abitanti sopravvissuti in selvaggi privi di qualsiasi freno inibitorio. Gringo e i suoi amici si troveranno a lottare per la loro sopravvivenza, in una città diventata una giungla primitiva...


L'elemento che colpisce di più di questo film del cileno Nicolàs Lòpez, giornalista de "Il Mercurio" passato poi al cinema (peraltro non memorabili i suoi primi film-commedia), è certamente la fotografia al neon di Antonio Quercia, che colora Santiago d'estate come un luna-park sfavillante e vivacissimo, iperilluminato quasi a saturazione naturale. Sono belle, non c'è che dire, le prime sequenze della visita del gruppo di giovani ad una cantina cilena, con quelle botti color mogano chiaro davvero maestose, così come certe vedute di Valparaiso (ci sono stato e posso testimoniarne la sua particolarità di località marina aggettante su un Oceano Pacifico che ospita per di più la lontana e misteriosa Isola di Pasqua). Il film utilizza questa grande luminosità colorata del primo tempo come contrasto radicale al secondo, tutto ambientato in notturna, e in questo possiede grande intensità visiva e acume narrativo per quanto riguarda lo script, che scivola via gradualmente verso la catastrofe, inghiottendo come dentro un'invisibile palude di sabbie mobili i cinque ignari protagonisti. Il problema cardinale di "Aftershock" è tuttavia Eli Roth. E' lui e la sua personale, inconfondibile Weltanschauung infatti a imperare per tutti i 90 minuti di pellicola, oltre ad essere presente in carne ed ossa poiché lui è uno dei principali protagonisti. Ci sembra cioè di vedere "Hostel", sempre lo stesso stramaledetto "Hostel", con le solite ragazzine bellocce dalla pelle liscia e dal culo sodo che naturalmente ci aspettiamo ben presto maciullato da una sparachiodi oppure da un machete, con i soliti sadici figuri gratuitamente invitati sulla scena a mostrare il loro cinismo da macelleria umana. La differenza sostanziale, rispetto a "Hostel", perché  certo, qualche differenza la dobbiamo pur trovare, consiste nel fatto che il "cattivo" di turno non è la solita confraternita di aristocratici voyeur che pagano molti soldi per assistere ad efferatezze più bizzarre che altro; questa volta è la Natura (geologica e umana) a rivestire questo ruolo nel film. Aldilà di questo, la profondità di riflessione su questi temi che peraltro sarebbe anche interessante pensare ed elaborare su un piano artistico-cinematografico, semplicemente non esiste. Indifferenza della Natura, fragilità e impotenza dell'uomo, darwinismo sociale, primitività dell'azione umana e molto altro ancora, ci viene buttato su un piatto e poi lasciato lì a marcire sotto il sole di Santiago, senza colpo ferire. La superficialità postmoderna dell'immagine, mescolata a uno stile splatter che più esibito e gratuito non si può, dilaga sovrana su tutto il girato, ed è proprio questa la Weltanschauung rotiana, la sua marca più distintiva, una poetica cioè che non vuole colpire al cuore, che rimane sempre e comunque alessitimica e vuota, incapace di emozionare ed emozionarsi. Anche le sequenze dei due stupri, che potevano contenere un'occasione unica per una  denuncia sociale forte della violenza maschile sulle donne, viene virata in una dimensione che risulta inconsapevolmente grottesca, nonché girata senza nessuna intensità. L'unica sequenza che mi è parsa interessante e sentita da parte di  Lòpez è quella in cui una madre spara ad uno dei ragazzi (Pollo) per impedirgli di trovare riparo oltre il cancello di una casa dove si è rifugiata insieme ad altri superstiti: qui è presente un imprevedibile brezza neorealista che è sicuramente da apprezzare, ma si tratta di poca cosa rispetto al quadro complessivo del film. L'interpretazione degli attori è molto, troppo consueta, a tratti stereotipata, con un Eli Roth che veste i panni di se stesso gonfiando il suo ego a dismisura anche, e soprattutto, quando viene schiacciato da una volta di cemento nelle scene ambientate nei loculi del cimitero. Le ragazze, a parte Monica (Andrea Osvàrt), che cerca vanamente di rappresentare il grillo parlante del gruppo, sono una uguale all'altra e tutto sommato non vedi l'ora che cadano presto sotto il peso dell'impietosa natura sismica dei luoghi o delle pulsioni aggressive degli umani. Stessa musica anche da parte dei maschi del gruppo, assolutamente insipidi e, come ripeto, futilmente postmoderni in sommo grado. Il prefinale alla "The Descent", con la sopravvissuta (ovviamente donna) rimasta sola ad affrontare il male nelle oscure caverne, viene poi risolto in modo rapido e ovviamente sanguinolento, e non lascia segno o significazione estetica particolare.  Per non parlare del finale, che vuole a tutti i costi essere spiazzante come il terzo atto di qualsiasi horror che davvero meriti questo nome,  ma non ci riesce affatto. Tutto quanto scritto fin qui per dire che Nicolàs Lòpez spreca un'ottima occasione (nonchè l'ottima fotografia di Antonio Quercia) per dare spazio allo spirito nefasto di Eli Roth, amico ingombrante da cui non sa (o non può?) prendere distanza adeguata per poter creare qualcosa di più originale e interessante. Lo spettatore, inoltre, non è messo neppure nelle condizioni di godere degli effetti speciali che in questo film non rendono affatto l'esito apocalittico di una devastazione urbana quale quella prodotta da un terremoto. "Aftershock", inutile ricalco rotiano di cui si poteva largamente fare a meno: sconsigliato.
Regia: Nicolàs Lòpez  Soggetto e Sceneggiatura: Nicolàs Lòpez, Guillermo Amoedo, Eli Roth  Fotografia:Antonio Quercia Musiche: Manuel Riveiro Cast: Eli Roth, Andrea Osvart, Ariel Levy, Selena Gomez, Nicolàs Martìnez, Lorenza Izzo, Natasha Yarovenko Nazione: Cile, USA   Produzione: Cross Creek Pictures, Dragonfly Entertainment  Durata: 90 min. 

giovedì 16 maggio 2013

A Lonely Place to Die, di Julian Gilbey (2011)



La giovane Alison, accompagnata da quattro amici, organizza una gita sulle selvagge Highlands scozzesi, alla ricerca di emozioni forti a base di arrampicate in zone impervie. Sciaguratamente l'atmosfera della vacanza vira bruscamente al peggio nel momento in cui  i cinque amici trovano casualmente una bambina serba rinchiusa all'interno di un buco ben nascosto nel terreno di un bosco. La scoperta mette sulle loro tracce i criminali responsabili del sequestro della bambina, e dà il via ad una spietata caccia all'uomo...

La cupissima ambientazione naturalistica in una Scozia di per sé fascinosa, ma ripresa e fotografata nei suoi versanti più ostili e inospitali, è già un buon biglietto da visita di questo interessante film inglese, più noir che horror, che gioca proprio sulle atmosfere e sul rapporto vittima-carnefice. Lo script è costruito in modo da non abbassare mai il livello della suspense, generando situazioni che si avvitano in micro colpi di scena semplici ma inaspettati, a partire dal ritrovamento della bambina nel buco sotterraneo, che sa un pò vagamente di "Lost", con quel tubo periscopico per l'areazione che fuoriesce dai muschi e dai licheni. L'incontro dei cinque amiconi, molto british, molto reali, con la violenza sociopatico-criminale della banda dei sequestratori, è molto duro, immediato, nella miglior tradizione del cinema (ma anche della letteratura) perturbante anglosassone: non viene data nessuna consolazione visiva allo spettatore, neppure sul piano del paesaggio, ottimamente fotografato da Ali Asad che non indulge per un solo minuto in romanticismi da cartolina, e illumina invece di luce grigia, autunnale le alte e verdi montagne delle Higlands, rendendole arcigne e pietrose, cioè sentiero difficile e pericoloso per gli sprovveduti gitanti. La violenza delle sequenze della caccia non è mai urlata, ma risponde all'intento principale dello script, che è quello di mostrare la freddezza e la logica inesorabile del disegno criminoso dei sequestratori. E' un disegno che occorre cioè portare avanti a tutti i costi, in modo per così dire "totalitario", e Alison e i suoi amici sono semplicemente degli ostacoli al conseguimento degli obiettivi di questo disegno: vanno dunque eliminati, a parte la bambina, ovviamente, che è la merce di scambio fondamentale, che bisogna recuperare come un bottino perduto. La violenza, saggiamente, non è quindi apertamente e gratuitamente mostrata, a parte la fucilazione in corsa di uno dei cinque, sequenza molto intensa, lunga e sottolineata con cura da Gilbey che in questo caso desidera però segnalarci il cinismo assoluto dei carnefici di fronte alla fragilità altrettanto assoluta della vittima. Un'altra sequenza molto importante del film, a mio avviso da ricordare perché esteticamente profondissima, quasi geniale direi, è quella in cui Jenny (una Kate Magowan sensualissima e torvamente compresa nel suo ruolo) si trova sul torrente e tiene per mano la bambina: l'inquadratura è sul primo piano della piccola il cui viso improvvisamente si tinge di uno spruzzo di sangue, e un attimo dopo la vediamo cadere trascinata nell'acqua insieme a Jenny colpita da un colpo di fucile. Ho trovato magistrale nel suo piccolo questa sequenza, nella quale l'uccisione di Jenny non viene esibita, mentre l'accento visivo-emotivo è tutto spostato su Anna, la bambina, una bambina tra l'altro non bella, si potrebbe dire "banale" nei tratti somatici, ma appunto per questo molto realistica e toccante. E' inoltre ottima la scelta di Gilbey di tingere completamente di noir il finale del film, alzando il livello di conflitto all'interno della banda, umanizzando anche quella cioè, e allontanandosi così definitivamente da un territorio horror, nel senso di un viraggio fortemente "neorealistico" tuttavia ugualmente perturbante perché  appunto molto "reale". Si tratta cioè di una storia che potrebbe davvero accadere, o che accade già, o che è realmente accaduta e che spaventa molto il bambino-spettatore, senza il bisogno di ricorrere a espedienti sovrannaturali: la violenza è qui, tra noi, in un bosco scozzese, durante una festa di carnevale del villaggio (altra occasione di ottime sequenze che mi hanno ricordato certi racconti neogotici del nostro Eraldo Baldini, ambientati nei boschi dell'Emilia), oppure in un pub tra buoni amici che bevono una birra. Difetti? Certamente, ma sui quali si può ampiamente sorvolare, vedansi ad esempio l'uso eccessivo ed inutile del ralenty in molte sequenze d'azione, nonché il finale, ben costruito, ma che andava forse un pò più lavorato e pensato, perché raffredda la catarsi che tutti ci aspettiamo. D'altra parte che questi inglesi  fossero un pò algidi nei modi lo sapevamo. Per concludere una nota di merito per la protagonista, Alison (Melissa George) che avevamo già visto in gran forma in "Triangle" (2009) e in "30 giorni di buio" (2007): attrice da seguire perché sa interpretare ruoli "perturbanti" simultaneamente con leggerezza e intensità. Non dimentichiamoci poi, che il film ha un budget ridottissimo, attori non molto conosciuti e un regista altrettanto "minore", tutti elementi che non riducono comunque la qualità di "A Lonely Place to Die", che è opera sicuramente da vedere. 
Regia: Julian Gilbey Soggetto e Sceneggiatura: Julian Gilbey, Will Gilbey Fotografia:       Ali Asad Montaggio: Julian Gilbey, Will Gilbey   Musiche: Michael Richard Plowman     Cast: Melissa George, Ed Speleers, Sean Harris, Alec Newman, Eamonn Walker, Karel Roden, Kate Magowan, Gary Sweeney, Stephen McCole, Paul Anderson, Holly Boyd Nazione: Uk    Produzione:  Carnaby International, Eigerwand Pictures, Molinare Studio  Durata: 99 min.