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domenica 18 novembre 2012

Red Lights, di Rodrigo Cortés (2012)



La dottoressa Margaret Matheson, psicologa sperimentale, e il suo giovane assistente Tom Buckley, dedicano il loro lavoro universitario alla studio scientifico dei fenomeni paranormali. I loro obiettivi principali consistono nel dimostrare l'inesistenza di tali fenomeni, e nello smascherare sedicenti sensitivi che sfruttano la superstizione del loro pubblico. Le ricerche di Matheson e Buckley li portano a confrontarsi con Simon Silver, sensitivo di fama mondiale, tornato dopo trent'anni di ritiro e oblio per dimostrare nuovamente al mondo i suoi poteri. Buckley, gradualmente svilupperà una vera ossessione per Silver...


Le presenza regale e onnipervasiva di Sigourney Weaver e Robert De Niro, nonché i loro rispettivi ruoli magistralmente interpretati, rendono di per sé questo film di Rodrigo Cortès imperdibile, almeno per uno come me che considera la Weaver, dopo Vanessa Redgrave, una delle maggiori attrici cinematografiche viventi. Il resto del cast è in questo senso coreografico, compreso il pur bravo Cillian Murphy, nonostante lo sguardo da pesce lesso che mantiene indefessamente nel corso di tutta la pellicola. Lo script è fondamentalmente suddiviso in tre parti non necessariamente coincidenti con i tre atti classici in cui è ripartito un film: nella prima la Weaver assume un ruolo centrale, così come la relazione con l'assistente/allievo Tom. Si tratta, a mio avviso, della parte migliore, meglio girata e più intensa, con una Weaver splendidamente ispirata e altrettanto ben ripresa, fotografata e colta attraverso primi piani nei quali ogni sua ruga parla, oltre che della storia che stiamo vedendo, anche della sua personale  carriera cinematografica. Una vera delizia che vale da sola il tempo e il denaro spesi per entrare in sala. La seconda parte si muove su un terreno più vago, nel quale prende spessore il ruolo di Cillian (Tom), e anche tutto il plot, che si apre a sua volta sul personaggio di Silver/De Niro, il quale diventa qui a sua volta centrale, sfocando di molto la figura della Weaver. La terza parte è rappresentata dal finale, purtroppo poco, pochissimo convincente, aldilà del fatto che, in sé  è un finale molto spiazzante e davvero imprevisto. Ma è proprio questa contraddizione, per certi versi inspiegabile almeno per chi scrive, a rendere il film non del tutto riuscito, e generatore di più d'una perplessità. Probabilmente è  il congegno drammaturgico nel suo complesso a non funzionare a dovere, cioè la sua gestalt a risultare non coerente, nonostante tutte le buone intenzioni di Cortès, che cerca poi di sviluppare la storia attraverso una regia impeccabile, ma incapace di saldare secondo linee coerenti la sproporzione tra le tre parti che ho descritto. Il finale è punteggiato da brevi flash-back che tentano di dare senso a questa sproporzione, ma che comunque non sono in grado di illuminare di luce viva e vigorosa un andamento narrativo che parte in quarta ma poi si perde in vicoli bui. Mi sono chiesto se la sproporzione di cui sto parlando non dipenda anche dalla diversa caratura dei tre principali protagonisti, cioè Weaver, De Niro e Murphy, che non sembrano mai bene entrare in dialettica. I tre, cioè non sembrano mai "parlarsi" veramente, ciascuno collocato nei suoi propri spazi di scena, ma senza interazioni davvero significative sul piano dell'intreccio. L'unico dialogo veramente importante è quello tra la dottoressa Matheson e Buckley sul finire della prima parte, nel quale tuttavia è sempre la Weaver a possedere veramente la scena, lasciando Murphy in un angolo coi suoi soliti occhi da pesce lesso in salamoia. De Niro è possente, soprattutto nella prima sequenza in cui compare nel teatro, quando "guarisce" dal vivo il paziente disteso sulla barella. Ma anche questa sequenza rimane isolata, come incorniciata e appesa in una galleria di quadri, molto bella da vedere e rivedere, ma non ben integrata con il resto. Da un certo punto di vista poi, anche il tema del confrontro/scontro tra paranormale e mentalità scientifica, appare come semplice pretesto per costruire una storia tutta tesa a produrre un coup de theatre finale che rimane fine a se stesso. Da questo punto di vista il film risulta poi del tutto privo di elementi inquietanti o specificamente perturbanti, ma forse proprio perché il regista pensa ad altro, cioè pensa di stupirci con l'effetto speciale di un finale in stile "The Others", che però fa il botto  di un petardo di Capodanno  che si spegne subito e poi la vita continua. La fotografia di Xavi Gimenez e le musiche Vìctor Reyes in questo progetto narrativo condotto da Cortés hanno quindi un ruolo del tutto marginale e scarsamente significativo. A parte le performance di Weaver e Di Niro, certamente riuscite, si poteva lavorare anche meglio e più finemente caratterizzando il rapporto tra la Matheson e Buckley, rendendolo cioè più attraversato da correnti edipico-filiali, ad esempio, oppure dipingendolo con i toni più aspri del conflitto generazionale, aspetti che Cortès non vuole introdurre nè tanto meno sfiorare. In sintesi "Red Lights" mi è apparso piuttosto deludente e tuttavia da vedere per non perdersi due calibri da novanta come la nostra beneamata Sigourney  e il sempre mitico Robert, entrambi in ottima forma. 
Regia:Rodrigo Cortès  Soggetto e Sceneggiatura: Rodrigo Cortés    Fotografia: Xavi Giménez   Musiche: Vìctor Reyes    Cast: Sigourney Weaver, Robert De Niro, Cillian Murphy, Elizabeth Olsen, Joely Richardson, Toby Jones, Leonardo Sbaraglia, Jeany Spark      Nazione: Spagna, USA    Produzione:  Nostromo Pictures, Cindy Cowan Entertainment, Antena 3 Films   Durata: 113 min.   

giovedì 15 novembre 2012

Sinister, di Scott Derrickson (2012)



Ellison è uno scrittore di "true crime stories", che sta raccogliendo materiale legato all'uccisione di un'intera famiglia all'interno della propria casa. Troverà dei video che dimostreranno come la serie di omicidi sia collegata ad un'entità sovrannaturale.Il suo lavoro investigativo lo porterà a mettere a repentaglio la vita della sua famiglia. 

Dopo i poco entusiasmanti "L'esorcismo di Emily Rose" (2005) e "Ultimatum alla terra" (2008) , Scott Derrickson si riposiziona dietro alla macchina da presa per girare una storia scritta da lui stesso con l'ausilio di C. Robert Cargill (giovane e alquanto sconosciuto sceneggiatore). La vicenda si apre sul ritrovamento di alcune bobine Super 8 da parte dello scrittore Ellison Oswalt all'interno di una casa in cui un'intera famiglia è stata uccisa da un misterioso serial killer, e nella quale Ellison decide di trasferirsi con la sua famiglia per indagare su quella barbara uccisione, e scriverne un libro. Un bell'incipit che sembrerebbe far ben sperare, perché piuttosto originale, da una parte, ma dall'altra anche rielaborativo di tòpoi classici, come il Jack Torrance di Kubrick. Qui finiscono però i pregi di questa pellicola, che difetta principalmente di una sceneggiatura che sembra un piano inclinato pencolante e tutto centrato (o meglio scentrato) sulla figura di Ellison, un Etahan Hawke anche bravo a sostenere il peso dello lo script, ma non sufficientemente carismatico e caratterizzato a dovere, per nascondere le sproporzioni e le smagliature dell'ordito narrativo. Se infatti Ellison/Hawke non è Jack,  Torrance,  a maggior ragione sua moglie Tracy (Juliet Rylance) è lontana mille miglia da Wendy Torrance (Shelley Duvall), per non parlare dei due figli, Ashley e Trevor. Infatti lo sbilanciamento narrativo sta nel fatto che la famiglia non ha una parte in commedia ben definita, e allora viene da chiedersi perché Derrickson non abbia optato per una storia completamente e solo centrata su Ellison: tanto valeva. Ma i problemi non finiscono qui. Il film è troppo lento, troppo spesso appesantito da sequenze interminabili che uccidono la suspense e la diluiscono in atmosfere certamente sinistre ma che non fanno fare allo spettatore nessun significativo movimento sulla sedia, tanto meno il famoso "salto" che ci aspetteremmo visionando qualsiasi sedicente horror movie. L'assenza di caratterizzazione di tutti personaggi, a parte Ellison, rende il tutto molto grigio e stagnante e anche i dialoghi tra lo scrittore e i poliziotti locali sono roba muffa e noiosa che mai si integra con il resto. Effetti speciali, make-up, musiche e fotografia (peraltro molto eloquente e illuminata sempre con i giusti toni da Chris Norr) non aggiungono niente ad un niente a mio avviso mal raccontato e con un tasso di inquietudine pari a zero. Un discorso a parte, ma sempre sulla stessa linea, va fatto per il nuovo villain (Bughuul/Mr. Boogie) che compare in tutti i truculenti filmini Super 8 che Ellison ci mostra all'inizio del film. Questo villain assomiglia innanzitutto a un Marilyn Manson di provincia, figura torva e spenta quante non ne avevo mai viste in un film di questo genere, e che farà la sua comparsa in modo più consistente nel prefinale e nel finale, senza tuttavia mai colpo ferire sul piano di una sua eventuale sedimentazione nel nostro immaginario. Anzi, lo dimenticheremo molto presto, lo lasceremo proprio cadere nell'oblio, come tutto quanto il film. "Sinister" è un'opera molto ambiziosa nella sua progettualità e ideazione iniziali, che cerca (vanamente) di ritrovare e rinverdire un'ispirazione kubrickiana capovolgendone furbescamente il cliché,  attraverso un viraggio verso il sovrannaturale grossolanamente messo in atto. Poco convincente, se non fastidioso anche l'espediente retorico-ricorsivo del ritrovamento della scatola contenente i filmini Super 8. Come avrete capito "Sinister" non mi ha convinto per niente, e quindi lo sconsiglio con vivo e vibrante cipiglio critico. 
Regia: Scott Derrickson   Soggetto e Sceneggiatura: Scott Derrickson, C. Robert Cargill     Fotografia: Chris Norr   Montaggio: Frédéric Thoraval   Musiche: Christopher Young   Cast:   Ethan Hawke, Juliet Rylance, James Ransone, Fred Dalton Thompson, Michael Hall D'Addario, Clare Foley, Nazione:USA  Produzione: Alliance Films, Automatik Entertainment, Blumhouse Productions   Durata: 110 min. 
  

domenica 11 novembre 2012

World War Z, di Marc Forster (2013) - trailer



Per apprezzare la qualità delle immagini, suggerisco di vedere questo trailer in modalità schermo intero.

mercoledì 7 novembre 2012

Skyfall, di Sam Mendes (2012)



Il rapporto tra James Bond e il capo dell'Intelligence inglese, Mi6, M., è messo a dura prova quando M. è posta in serio pericolo da un ex-agente diventato terrorista internazionale. Mentre l'Mi6 è sotto attacco, l'agente 007 deve a tutti i costi scovare e distruggere la minaccia, nonostante il fatto che anche un agente di ferro come lui cominci a sentire il peso degli anni e una certa stanchezza...

Può forse apparire strano che da queste parti alberghi una recensione a "Skyfall", che sembra non avere nulla a che spartire con il cinema perturbante. E appare strano anche a me, mentre scrivo, vi dirò. Tuttavia quest'ultimo film di Sam Mendes ("American Beauty", 1999; "Era mio padre", 2002; "Revolutionary Road", 2008) mi ha colpito molto favorevolmente e quindi desideravo scriverne, anche perché ritengo che contenga qualche (e notevole) elemento di "perturbazione", rispetto all'archetipo del James Bond filmico consueto, rendendolo poi oggetto estetico che può fornire più di uno spunto critico in chiave psicoanalitica. Per cominciare questo James Bond di Mendes (un Daniel Craig mai stato così espressivo e calato perfettamente nel personaggio), è un uomo provato dalla fatica e dal passare del tempo; minacciato da un nemico interno (l'ex-agente Mi6 Silva, uno Javier Bardem luciferino al punto da spingere addirittura Bond in tentazioni omosessuali); in lutto per la morte del suo capo-matrigna M. (una Judi Dench magistralmente granitica, la miglior interprete del film), a dispetto di tutto l'eroismo messo in campo per salvarla; lontano dal prototipo di un aplomb anglosassone a tratti stucchevole che ha caratterizzato molti suoi predecessori. Insomma un anti-eroe dipinto da un Mendes che vuole tratteggiare l'affresco di un epoca (la nostra) in cui ogni ideale e ogni mito di qualsivoglia natura è caduto e rotolato nella polvere, frammentato da mille tentazioni, richiami, seduzioni e infrollimenti etici di ogni tipo. Mendes sembra dirci, attraverso questo il Bond di "Skyfall", che la cultura occidentale odierna si muove su un terreno più che paludoso, cioè su sabbie mobili che non risparmiano nulla e nessuno: una cultura dell'incertezza assoluta, aldilà della "vita liquida" di cui ci ha parlato Zygmut Bauman, una in-cultura che riesce a spezzare le gambe anche ad un eroe superominico come l'agente 007. Il film parte con una introduzione cantata da Adele (il cui video ho postato più sotto), nella quale i titoli di testa sono accompagnati da immagini inquietanti (tombe, ombre roteanti, spari e fumi che avvolgono e poi scompaiono) e da una bellissima musica che ci fa poi scivolare immediatamente nella pura azione adrenalinica. La sceneggiatura, da qui in avanti, è sempre ben cadenzata, ritmicamente pulsante, e mantiene si potrebbe dire sul piano visivo, la ritmica musicale dell'introduzione. Fotografia (dell'ottimo Roger Deakins) e regia si sposano sontuosamente e raggiungono un picco artisticamente raffinato e insieme intenso nella sequenza dell'ascensore che poi diventa sequenza del grattacielo a vetri, con quelle coloratissime, cangianti e proteiformi immagini medusoidi che ruotano intorno a Bond poco prima che il killer spari all'uomo seduto nella stanza dell'edificio di fronte, altra sequenza che è un dipinto fiammingo di semplice, soave eleganza. Varie parti del film sono "quadri", "pittografie" filmiche di rara intensità, come la lunga sequenza in cui Bond si trova in un bar di Macau e incontra Sévérine, ex-prostituta, "schiava" di Silva-Bardem,  che lo condurrà sull'isola del nemico. La potenza visiva, la passionalità drammatica messa in scena e usate a piene, generose mani da Mendes emerge in tutta la sua forza proprio qui, sull'isola: luogo atopico, simulacro di una decadenza delle cose e delle menti che diventa teatro di un surreale duello in cui la nuova amante di Bond morirà, sotto il sole a picco di un leggendario quanto futile O.K. Corral ultra-post-moderno. Sto dicendo che il film è decisamente da vedere:  da qualsiasi angolazione vorremo considerarlo, mostrerà infatti scorci di poesia filmica che a tratti si fa struggente. Un requiem, un de profundis per l'Occidente ucciso dal denaro, dalla finanza, dal consumismo impazzito, ho pensato. Che cosa può rappresentare, appunto, il varano di Komodo che tenta di azzannare Bond nella sequenza del bar di Macau, se non questo tempo in cui il denaro ha azzannato l'anima dell'uomo occidentale e se la sta divorando? Su questa linea tematico-testuale, il film ci porta alle "origini" di Bond, alle origini del mito e dell'eroe. Ci porta a Skyfall, la casa scozzese dove è nato Bond, altro spunto profondissimo generato dalla penna degli sceneggiatori, che Mendes interpreta con modalità wagneriana nel corso di tutto il terzo atto del film, lunga, fiammeggiante, insieme tristissima e rigenerativa anabasi che umanizza ulteriormente l'eroismo di 007: Bond ha una storia, non è un personaggio di plastica, soffre, piange, vive emozioni, si china sul cadavere di M. come in una tragedia greca classica, circondato da ruderi e atrii muscosi. M. è come una madre-padrona che ha forgiato la sua anima, i suoi ideali, e quindi neanche Bond può sottrarsi alla visione di una parte di sè stesso che muore con la morte di M. Mendes si sposta quindi nettamente sul piano del lutto, della perdita e della rimemorazione, così come aveva fatto, con altrettanta profondità in "Era mio padre" (2002). Mendes, cioè, con questo suo ultimo film, mette in scena la trama più profonda delle passioni umane, riuscendo a raccontarle entro la cornice di una spy-story che non abdica comunque alla sua funzione centrale di "gioco" (di play winnicottiano), di intrattenimento, riuscendo, cioè, a rivolgersi ad un pubblico molto vasto e pluristratificato. "Skyfall", grande film, da vedere senza indugi.   Regia: Sam Mendes    Soggetto e Sceneggiatura: Neal Purvis, Robert Wade Fotografia: Roger Deakins   Montaggio: Stuart Baird   Musiche:  David Arnold   Cast:  Daniel Craig, Javier Bardem,Naomie Harris, Judi Dench, Ralph Fiennes, Bérénice Marlohe, Albert Finney  Nazione: UK, USA   Produzione: Metro-Goldwyn-Mayer (MGM), Danjaq, Eon Productions  Durata: 143 min.