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mercoledì 29 agosto 2012

Lovely Molly, di Eduardo Sànchez (2011)



I novelli sposi Molly e Tim, subito dopo i festeggiamenti per il loro modesto matrimonio, si trasferiscono nella casa dei genitori defunti di Molly. Ma non molto tempo dopo il trasloco, cominciano a riaffiorare ricordi inquietanti nella mente di Molly. Tim fa il camionista, e mentre lui è lontano da casa per lavoro, Molly comincia a sentire e vedere cose che non riesce a spiegarsi. Per sedare le sue ansie, Molly inizia a fumare marjuana e a far uso di altre sostanze, mentre sua sorella Hanna comincia seriamente a preoccuparsi per lei. Gradualmente la verità comincia ad emergere, nel modo più orribile, e un senso di cupa insicurezza invade, piano piano, la vita di tutti. 

Il co-autore (insieme a Daniel Myrick) di "The Blair Witch Project", torna a noi dopo circa cinque anni, con questo "Lovely Molly", scritto con Jamie Nash. Il film ripresenta il tema  della "leggenda sovrannaturale", cui tutta la filmografia di Sànchez rimane fedele, al punto che potremmo definirlo un "tema ossessivo", che il regista, a partire da "TBWP" studia e ristudia, con indubbia padronanza. Stiamo in particolare parlando di un sovrannaturale di stampo spiccatamente statunitense, radicato nella provincia povera e ignorante degli States, terreno di coltura ideale del magico-fideistico. D'altra parte anche "TBWP", nasce da un soggetto che desidera lavorare in modo innovativo proprio quella materia, e ci riesce molto bene, inventando di sana pianta, e non è poca cosa, il noto innesto horror-mockumentary. L'effetto è straniante proprio perchè il "primitivo" magico si integra, ma in modo inquietante, con il moderno della tecnica di ripresa. "Lovely Molly" cala questa struttura di base all'interno, non della storia di una comunità, bensì all'interno di una rete familiare, quella di Molly. "Familiare" in due sensi ambivalenti e collocati su due coordinate temporali distinte: la sua famiglia d'origine, e la sua famiglia attuale, cioè la coppia costituita da Molly e Tim. Da un certo punto di vista verrebbe in mente una sorta di declinazione al femminile di Amleto, poichè in effetti il film appare come venato da un sottile spirito shakespeariano, anche nelle ambientazioni cupe, tutte costruite tra boschi e interni di una casa davvero spaventosa, abitata da ricordi genealogici tremendi, tradimenti, soprusi, vendette. Ma elemento interessante del film è la costruzione (lenta, al limite della pazienza visiva di un spettatore di genere horror qualunque) di un'atmosfera di complessiva regressione e destabilizzazione psichica inesorabile a carico della protagonista, Molly, una Gretchen Lodge molto brava, soprattutto a porsi egregiamente come rappresentante della low class americana: le sequenze iniziali del matrimonio sono di una tristezza tremenda, dal punto di vista sociologico, a questo proposito. Sànchez è molto, molto sapiente nel disvelare la storia di Molly, intrecciando il diegetico del presente, con un diegetico (improprio) del passato, raccontato attraverso i dialoghi tra Molly e sua sorella. Il disvelamento è graduale, inesorabilmente pessimistico, e ciò che mostra, alla fine è un vuoto sociale assoluto, pneumatico, nel quale Molly sprofonda, senza poter dire nè a nè ba. Che siano i fantasmi che possiedono la casa maledetta, oppure una famiglia d'origine che nasconde fantasmi muti e mai elaborati, poco importa: il matrimonio di Molly con l'inconsistente Tim non servirà a riscattare quel vuoto di cui Molly è vittima, un vuoto che ha respirato fin da quando è venuta al mondo, che la sostanzia e circola dentro di lei da sempre. Perchè è poi questo che Sànchez vuole dirci, cioè che Molly è una vittima. Se possiamo infatti segnalare una differenza essenziale tra questo film e i precedenti di Sànchez,  in particolare  "The Blair Witch Project", tale differenza è rappresentata da un taglio decisamente sociologico del film, aldilà del tema "possessione", che è lasciato (volutamente) in secondo piano. Anche il grigio rapporto tra Tim e Molly segnala la stessa tematica, ripresa anche nelle sequenze in cui viene ritratto lo squallidissimo e impersonale ambiente lavorativo di Molly, in cui la solitudine sembra essere l'unica compagna della ragazza. Sono molto penetranti, e metaforiche, a tale proposito, le sequenze in cui vediamo Molly gettare le immondizie in grandi container posti nel cortile del luogo in cui lavora. Molly non si accorge che la sua stessa vita, e lei stessa sono un' immondizia gettata in un container matrimoniale (ora) e familiare (allora). Lo spettatore se ne accorge eccome, invece, accompagnato per mano da un Sanchez che orchestra tutta la sua musica sul livello della solitudine affettiva dell'individuo, lasciato solo ad affrontare mostri più grandi di lui, che alla fine, dunque, e necessariamente lo divoreranno. Il film lascia con una forte sensazione di "pessimismo storico", rispetto al quale il regista non ci lancia nessuna àncora di salvezza. Ben congegnato, sebbene a mio avviso troppo lento in alcune soggettive, nonchè in molti dialoghi, e  forse inutilmente sovraccaricato dall'uso mockumentaristico della cinepresa amatoriale, in altri punti, "Lovely Molly" lascia certamente un segno su chi guarda, e muove riflessioni profonde sul tema polisemico della "famiglia". E' apprezzabile, da parte di Sànchez, oltre all'andamento drammaturgico costruito su svelamenti successivi, anche l'evitamento accurato del maledetto "spiegone finale", che proprio non c'è, nel senso che molti "segreti" vengono lasciati insaturi, non chiariti. Sul piano extra-diegetico, Sànchez decide poi,  giustamente, di tacitare il sonoro, nelle sequenze di climax, il che aumenta di molto la tensione e il coinvolgimento soggettivo dello spettatore. La fotografia, di John W.Rutland, dai costanti toni grigio-giallognoli, incentiva un senso di degrado socio-psichico in modo molto efficace, così come il montaggio lentissimo di Vona e del regista, ci costringe a stare con i piedi nella storia dal primo minuto fino all'ultimo. "Lovely Molly" è dunque un film decisamente consigliato. 
Regia: Eduardo Sànchez    Soggetto e Sceneggiatura: Eduardo Sànchez, Jamie Nash      Fotografia: John W. Rutland     Montaggio:  Andrew Vona. Eduardo Sànchez     Cast:        Gretchen Lodge, Alexandra Holden, Johnny Lewis, Daniel Ross, Brandon Thane Wilson, Lauren Lakis, Tara Garwood,  Nazione: USA Produzione: Amber Entertainment, Haxan Films  Durata: 99 min.   
   

venerdì 24 agosto 2012

The Tall Man, di Pascal Laugier (2012)


Cold Rock è una piccolissima cittadina di provincia situata a pochi chilometri da Seattle. Qui regnano la povertà e la disoccupazione più nere, da quando la miniera è stata chiusa, molti anni prima. Ma Cold Rock è anche il teatro di segreti inquietanti. Nel giro di alcuni anni sono scomparsi già 18 bambini, e l'ombra di uno spietato serial killer grava sulla dimessa vita quotidiana di ogni famiglia. Vani sono gli sforzi della polizia locale, e in particolare del luogotenente Dodd, di andare a capo di tutta questa tragica situazione. Una leggenda metropolitana locale, incolpa di queste sparizioni il misterioso "Tall Man", l'"Uomo Alto", un criminale malvagio e sfuggente che rapisce i bambini senza lasciare la minima traccia. Julia Denning, giovane madre e infermiera che vive da anni a Cold Rock, non crede a queste superstizioni, ma quando una notte scopre che il letto di suo figlio David è vuoto e che la baby-sitter è stata imbavagliata, legata, e nascosta in uno sgabuzzino, comincia la  disperata ricerca di David, all'interno dei fitti boschi che circondano la casa...

Il cinema di Pascal Laugier è struttura, non contenuto. E' lavoro di pensiero, attento, maniacale, e sul soggetto, e sulla sceneggiatura. E' costruzione non lineare di un racconto che muta di sequenza in sequenza, obbligando lo spettatore a cambiare continuamente l'ottica attraverso cui sta guardando un suo film. A Laugier non interessa - ormai è chiaro come il sole - l'effetto perturbante sul pubblico. "Martyrs" (2008), e lo si capisce molto meglio alla luce di "The Tall Man", piega l'effetto drammatico e violentissimo, all'inquadramento strutturale di una storia, che è "quella" storia che Laugier vuole raccontare. "Martyrs" non è un film violento e inquietante perchè Laugier desidera colpire lo spettatore con un pugno nello stomaco gratuitamente. Solo adesso lo capiamo bene. Il pugno allo stomaco è l'ultima cosa che interessa al regista francese, a dispetto dell'effetto emotivo "reale" che fa su chi guarda: è - tutto al contrario - lo svolgimento narrativo ad interessargli, o, meglio,  l'avvitamento narrativo straniante che il mezzo cinematografico e l'uso della macchina riescono a produrre nelle sue mani di artigiano ossessivo. Il suo ultimo "The Tall Man" è un esempio mirabile di tale atteggiamento estetico-filmico, che mette  in casseruola, parecchi ingredienti narrativi, per poi farli svaporare nel nulla, proprio perché Laugier non guarda a "temi" specifici, a "contenuti", bensì allo svolgimento a salti, a permutazioni, a "scatole cinesi" del racconto. Nei primi 25 minuti di pellicola noi vediamo una storia, quella di Julia Denning (una Jessica Biel a mio avviso meravigliosamente bella, e scelta magistrale di casting da parte del regista), che al 30esimo minuto diventa un'altra storia, attraverso un passaggio virato completamente sul puro onirico, dalla lunga, enigmatica sequenza dell'inseguimento nel bosco. Qui Laugier sa creare un ambiente che possiamo definire "sognante"  in senso stretto, perchè è capace di generare un'atmosfera di attraversamento narrativo che scioglie in pochissimo minuti le certezze che aveva fatto acquisire illusoriamente allo spettatore poco prima. Ci troviamo con Julia a vagare nel bosco, ad incespicare nel fango, a non capire. Dal 30esimo minuto in poi la storia continua a virare lentamente, ma inesorabilmente, in modo labirintico, così come avevamo visto in "Martyrs", ma rispetto a "Martyrs" l'onirico serpeggia fino all'ultima sequenza, e, nelle inquadrature intense dell'interrogatorio condotto dal luogotenente Dodd, ci vengono in mente alcune associazioni con Lynch. Tutto è però più freddo e calcolato di un film di Lynch. Quella che Laugier utilizza è una modalità onirica di condurre il gioco, che è per lui è una "storia vera" da raccontare, senza alcun ammiccamento al noto surrealismo lynchiano. D'altra parte è proprio così che funziona l'attività onirica umana: l'elemento più importante di un sogno non sono i suoi contenuti narrativi, bensì l'evidenziarsi dell'attività di un sognatore, di un artista che  dentro di noi dipinge affreschi onirici, mentre noi dormiamo, e a nostra insaputa, sebbene quel "pittore" siamo poi sempre noi stessi. E' questa presenza "artistica" inattingibile, a rappresentare l'elemento più interessante ed enigmatico di un sogno, e a questo enigma universale Laugier sembra fare costante riferimento in "The Tall Man". A quale codice ascrivere, ad esempio, il notevole dialogo tra Julia e Mrs. Johnson, se non al linguaggio onirico? La fotografia, eccellente, di Kemal Derkaoui, le musiche struggenti di Todd Bryanton, e soprattutto il montaggio vellutato del grande Sébastian Prangère, aiutano oltremodo alla creazione di atmosfere sensorialmente molto intense.  Detto questo, credo che "The Tall Man" possa aver comunque deluso le aspettative di molti suoi cosiddetti fan, che forse pretendevano da lui un pathos come quello presente nel film precedente. Ma di "Martyrs" se ne può fare solo uno, e dopo "Saint Ange" (2004), "Martyrs" e "The Tall Man", adesso capiamo molto meglio la poetica del regista, che potremmo appunto definire una poetica struttural-funzionalistica della sceneggiatura. L'occhio di Laugier sembra guardare più alla letteratura che al cinema: ricorda molto lo scrittore spagnolo Xavier Marias, ad esempio,  quelle sue pagine che sembrano pure associazioni libere che si fanno e si disfanno di riga in riga, di capitolo in capitolo, e che si aprono così verso l'ignoto creandolo e destrutturandolo al contempo.  Non è probabilmente un caso che Laugier fosse partito dallo studio di un racconto di China Mieville, "Details", che poi aveva abbandonato per dirigersi su questa strana storia che di horror ha davvero ben poco. Ma adesso veniamo giustappunto ai problemi di "The Tall Man", poichè di problemi ce ne sono. Il primo problema consiste nel fatto che Laugier azzera completamente la dimensione dell'intrattenimento, e il film risulta alla fin fine molto "freddo", nonostante sia totalmente dominato dal e centrato sul tema del dolore della perdita, la perdita peggiore, quella di un figlio. Ma se l'attenzione essenziale del regista è la struttura linguistica, allora lo spettatore non crede più alla partecipazione emotiva dei personaggi: le lacrime di Julia, la voce roca di Dodd, gli occhi tristi dei bambini rapiti, non emozionano più, perché non sono lì per emozionare, per intrattenere. Sono solo personaggi-funzione della struttura dello script. In questo modo, man mano che la pellicola procede nel suo lungo minutaggio, l'investimento partecipativo dello spettatore decade, o permane solo in funzione della curiosità che lo muove, curiosità che viene drasticamente frustrata al termine del film. Il secondo problema è il ricorso, in stile "Martyrs", al tema cospiratorio di gruppo, adombrato nel prefinale e sviluppato nel finale, rimando di cui non si sentiva affatto la necessità, dal momento che genera un legame poco comprensibile e ridondante con "Martyrs", laddove è evidentissimo che si tratta di due film molto diversi e lontani. "Martyrs" è poi un film molto più "caldo", nel quale il tema del dolore, fisico e psichico, e i sottotesti sociologico-filosofici sono molto più pregnanti, e nel quale emozione e struttura tendono ad integrarsi saldamente, cosa che non avviene per niente in "The Tall Man". In sintesi, la poetica cinematografica di Laugier, con quest'ultima sua pellicola, sembra spostarsi sempre più verso uno strutturalismo visivo-onirico, che raffredda tuttavia la performance complessiva e il pathos emotivo dell'opera. "The Tall Man" resta in ogni caso, un film ottimamente girato, nonché costruito con grande ponderazione analitica dal regista, la cui mano è magistrale nello studio preliminare e nell'elaborazione successiva della sceneggiatura. Di tale maestria occorre senza dubbio, a mio avviso, dargli atto, poiché muove pensieri e associazioni relative alle dimensioni creative e sognanti della nostra mente. Il film è quindi certamente da vedere. Regia: Pascal Laugier Soggetto e Sceneggiatura:  Pascal Laugier  Fotografia: Kamal Derkaoui   Montaggio:  dSébastian Prangère Musiche:  Todd Bryanton  Cast: Jessica Biel, Jodelle Ferland, Stephen McHattie, William B. Davis, Samantha Ferris, Katherine Ramdeen  Nazione: Canada, USA   Produzione: Cold Rock Productions BC, Forecast Pictures, Iron Ocean Films  Durata:  106 min.
  

domenica 19 agosto 2012

[REC] 3 GENESIS, di Paco Plaza (2012)



La coppia di fidanzati Clara e Koldo, stanno per coronare il sogno della loro vita: sposarsi. Tutto sembra filare liscio e andare per il meglio lungo il corso del sontuoso festeggiamento delle loro nozze, compreso il luogo fantastico e pittoresco che hanno scelto di portare gli invitati dopo la cerimonia. Ma all'improvviso qualcuno comincia a sentirsi male e a comportarsi in modo folle. Nel giro di pochi secondi scoppia un putiferio, e la festa è letteralmente invasa da esseri assetati di sangue, pronti a uccidere chiunque si frapponga tra loro e la loro sete di morte. Gradulamente i pochi sopravvissuti capiscono che si tratta di una malattia sconosciuta che sta trasformando gli abitanti della città in zombie. Clara e Koldo si ritroveranno, ma riuscirranno a sopravvivere a tale infernale situazione?

Perchè diavolo è saltato in mente a Paco Plaza di scrivere e girare una simile porcheria, che vorrebbe addirittura porsi come la "genesis" del primo [Rec], caposaldo contemporaneo del genere mockumentary-horror? Mi piacerebbe proprio domandarglierlo, direttamente e senza timidezze di sorta, poichè questo [REC] 3 GENESIS è davvero, semplicemente, linearmente malfatto, malscritto e mal pensato. Nulla, nulla e ancora nulla a che vedere con il capostipite della serie, così potente e inquietante nel suo ricorso alla verosimiglianza totale, nè tantomento con [REC] 2, sicuramente più difettoso e sbiadito del primo, ma comunque decisamente più convincente di questo scipitissimo brodo di cottura liofilizzato e ribollito insensatamente. Plaza vuole fare una nuova versione (europea) di film di zombie? Se la risposta fosse sì, allora sarebbe il più brutto film di zombie che abbia mai visto, capitolo chiuso e la recensione potrebbe fermarsi qui. Ma non è questa l'idea di Plaza. La sua ambizione insana è quella di allestire un vero e proprio prequel di [REC], e non si spiega come Jaume Balaguerò glielo abbia consentito. Se fossi stato in lui (Balaguerò), dopo aver visionato la nefandezza somma confezionata dall'antico collega, sarei corso da un avvocato per impedirgli di far uscire nelle sale una roba simile, utilizzando il copyright originario. L'idea del matrimonio, in sè è buona, come soggetto. Tuttavia tale soggetto è sviluppato in modo ridicolo, attraverso sequenze non credibili, sia sul piano della narrazione pura, sia su quello dell'interpretazione attoriale, che fa solo pena (vedasi una delle prime sequenze, con i fuggiaschi asserragliati nelle cucine, e  l'amico grassone che deve immolarsi agli zombie perché la sua mole di lipidi gli impedisce di passare attraverso il condotto di areazione). Il picco di ridicolo è raggiunto da questo comico di un Plaza, nelle sequenze in cui i sopravvissuti reperiscono delle armature medievali che utilizzano per difendersi dagli zombie infetti. Qui basterebbe un cameo di Alvaro Vitali per dichiarare apertamente il viraggio nel genere comico nel film. Ma Plaza si prende maledettamente sul serio, e non inserisce (purtroppo) nessun cameo di Vitali o Pippo Franco, il che gli farebbe bene, perché almeno potremmo riconoscergli una certa coerenza. Plaza invece procede nel suo delirio comico, e inserisce nello script la figura del prete, forse per generare un inutile e azzardato enjambement con la figura del prete che abbiamo già visto in [REC] 2. In ogni caso, da questo punto in poi il film si arrotola come in un tappeto di sequenze noiosamente inutili, allietate solo dalle belle fattezze di Leticia Dolera (Clara, la sposa), il cui visino da Lolita nabokoviana non è ovviamente sufficiente a sollevare le sorti di un un prodotto che alla fine di tutto sembra un banale B-movie, che a tratti ricorda anche certo ultimo Dario Argento (non so se mi spiego). Ritengo inoltre pessimo l'uso delle luci da parte del direttore della fotografia, Pablo Rosso, che soprattutto negli interni produce effetti fumettistici del genere "Dick Tracy", che con il tutto ci azzeccano come i cavoli a merenda. Anche il montaggio di David Gallart è pessimo, perchè molto rallentato e spento in vari punti, per poi diventare robotico e iperveloce in altri, a seguire peraltro una storia che non lo aiuta in sè, poichè già spenta nella mente di Plaza medesimo. Insomma, un disastro simile, il regista collega di Balaguerò, poteva davvero risparmiarcelo, con quei suoi movimenti di macchina, poi, a tratti tremuli, a tratti statici come il piombo, e, soprattutto, con quella sua bizzarra idea della sposa che manovra la motosega, sorta di Leatherface al contrario, anche interessante condensato onirico-creativo, la cui resa estetica finisce però per rasentare ancora una volta solo il ridicolo. Il viraggio finale verso un puro splatter anni '80, non fa che rendere la zuppa ancora più nauseabonda e da buttare subito in qualche discarica lontana, per dimenticarsela al più presto. Non parliamo, poi, della sequenza prefinale della botola, in cui i due sposini si ritrovano separati dalle sbarre, sequenza che si risolve in due secondi, senza pathos alcuno, senza alcuno spessore: un vero obbrobrio, cioè, come direbbero i latini, horribile visu. E non parliamo neppure del finale, ibrido tremendo tra il moralistico-religioso e lo pseudo-simbolico, che cerca di intrecciare il tema della castrazione con quello del legame amoroso. Mi raccomando: fuggite da questa cosa tremenda e inguardabile.  Regia: Paco Plaza   Sceneggiatura: Paco Plaza, Luis Berdejo, David Gallart  Fotografia: Pablo Rosso  Montaggio: David Gallart  Musiche: Mikel Salas  Cast: Leticia Dolera, Alex Monner, Diego Martìn, Mireia Ross, Ismael Martìnez, Ana Isabel Velàsquez  Nazione: Spagna    Produzione: Canal + Espana, Folmax, Ono Durata:  80 min.   

giovedì 16 agosto 2012

Lo spettro, di Jo NesbØ (2012)

Anno: 2011 Editore:Einaudi, collana Stile Libero Big, 2012 Traduzione: Eva Kampmann Pagine: 551, brossura  ISBN: 978-88-0621089-2   €. 19,00


Sono passati tre anni da quando Harry Hole è andato via da Oslo, dalla Centrale di Polizia, via dalla donna che ha amato e ferito troppo, e troppe volte. Oleg, il figlio di Rakel, il ragazzo che Harry ha cresciuto come se fosse figlio suo, è in carcere con l'accusa di aver assassinato il suo migliore amico, Gusto Hanssen. Il movente, secondo gli investigatori è un regolamento di conti nel mondo della droga. Ma Harry naturalmente non ci crede. Oleg, il suo Oleg che da bambino lo teneva per mano e lo chiamava papà, può essere diventato un tossicodipendente, ma non certo un assassino. Ad Harry non resta che correre a casa, correre contro il tempo, in cerca di una verità diversa da quella che è stata decretata.

Non c'è trippa per gatti: in questo periodo pochi film meritevoli di attenzione e recensione, quindi è opportuno spostarsi sulla letteratura, che decisamente propone cose più interessanti, e perturbanti. Non ultimo quest'ultima opera di NesbØ, molto interessante sotto vari profili, iperbolica e scattante come un film della serie "Agente 007", e in questo senso (come già ho avuto modo di scrivere qui e qui, e anche qui) anche un pò irritante, ma comunque sempre magistrale nell'afferrare il lettore per il bavero, senza tanti complimenti, e trascinarlo in una storia che va avanti da molti anni, una storia molto affascinante, disseminata lungo le molte pagine scritte dal nostro norvegese. "Lo Spettro" è costruito in modo più evocativo dei precedenti romanzi. Intanto il racconto è intercalato dalle parole del morto, Gusto Hanssen, ragazzo ventenne ucciso dalla mafia russa, che ci racconta con il suo slang da adolescente tossico, come si sono veramente svolti i fatti, e come Oleg, suo compagno di avventura e sventura, sia stato coinvolto in traffici più grandi di lui, suo malgrado, o meglio, per amore della sorella di Gusto, Irene. Altra figura evocativa in sommo grado, dal momento che per quasi tutto il romanzo non si vede, è semplicemente scomparsa. Sto dicendo, cioè, che il bello di quest'ultima opera di NesbØ sta nel suo essere più insaturo e aperto verso l'ignoto, a dispetto degli altri libri dell'autore norvegese, che sono invece stracolmi di sottotesti paralleli e subordinati al testo principale. Qui invece la storia è più asciutta, lineare, non si perde in rivoli salmastri, in stagni e gore narrative o birignao stilistici di cui nessuno sente il bisogno. "L'uomo di neve" (2007) aveva forse raggiunto il punto stilistico peggiore in questo senso: molto talentuoso, molto virtuosistico, si perdeva in flashback e anse discorsive inutili, per narrare una storia in verità semplicissima. "Il Leopardo" (2010) era invece una prova di titanismo letterario "giallo", totalmente inverosimile, ma che NesbØ riesce comunque a condurre in porto egregiamente, con tanto di applausi da parte del suo pubblico. "Lo spettro" rappresenta al contrario un momento di sosta introspettiva sull'adolescenza e le sue immense lagune di fragilità, che sconfinano con l'autodistruzione masochistica di stampo tossicomanico. La caratterizzazione psicologica dei personaggi è magistrale, soprattutto nel modo di rendere il racconto in prima persona di Gusto, che sembra una prosa da Beat Generation contemporanea. Leggete qui, ad esempio: "...la sera dopo, strafatti, vendemmo metà della scorta, prendemmo l'altra metà, noleggiamo un'auto e andammo a Kristiansand. Suonammo quel cazzone di Sinatra a palla, I Got Plenty of Nothing, che era vero, cazzo, non avevamo neanche la patente. Alla fine si mise a cantare anche Oleg, ma solo per coprire Sinatra e me, disse. Ridevamo e bevevamo birra calda, come ai vecchi tempi". "I vecchi tempi" sono i tempi eterni della giovinezza, quando ti possiede quella sensazione di invulnerabilità assoluta e onnipotente, accentuata dall'uso di droghe, in quegli adolescenti problematici come Gusto. "Lo spettro" è quindi un romanzo che potremmo definire senz'altro come "lirico", pur mantenendosi molto tensiogeno dalla prima riga all'ultima. Ovviamente una certa tendenza all'iperbole permane in NesbØ, soprattuto nelle sequenze di racconto in cui Harry viene ferito dal giovane killer russo Sergej, che poi fa fuori con un cavatappi (sic!). Harry Hole è un personaggio decisamente, letterariamente, "eroico". E' l'"eroe" medievale che salva la principessa dalle fauci del drago, e credo che NesbØ si renda pienamente conto di lavorare su un mitema universale come questo. Il nostro norvegese è anche un pò sornione, tuttavia: fa finta di non sapere qual'è il materiale mitico che utilizza, e ce lo vuol far passare come un personaggio nuovo, ritagliato dalla creatività dell'Autore, e senza legami con altri personaggi mai scritti. Non è così, perchè Harry (almeno in questo romanzo), ha tratti e battute alla Marlowe (come quando, dopo le brutte ferite subite da Sergej, dice a Hans Christian che gli chiede spiegazioni: "Niente, sono capitato in mano a un barbiere maldestro"), l'agilità di agente 007 flemingiano, la generosità di un eroe cortese. NesbØ è tuttavia capace di confezionare un personaggio, senza iper-estendere i sottotesti, nascondendoli ad arte vorrei dire. E il risultato è comunque eccellente: se il "barbiere" è NesbØ, allora Harry è capitato nelle mani di un barbiere tutt'altro che maldestro. Come avrete capito, suggerisco vivamente la lettura di questo libro, anche per i risvolti sociologici, che favoriscono acutamente una riflessione sulle "devianze" giovanili contemporanee, e soprattutto sui "burattinai" cui queste devianze fanno molto comodo.