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mercoledì 13 giugno 2012

Il metodo del coccodrillo, di Maurizio de Giovanni (2012)



Anno: 2012 Editore: Mondadori, 2012  Pagine: 250 ISBN: 978-88-04-61611-5 Euro: 17,00


E' il coccodrillo, la sua fame si è sedimentata negli anni, nel rumore di un rantolo senza fine, nel ricordo di un'antica tenerezza. Siamo a Napoli, una città borghese, inospitale caotica, dove ciascuno è preso dai propri affari. E' esattamente questo clima di indifferenza che permette a un killer gelido e metodico di agire indisturbato, di aggirarsi tra la folla e uccidere giovanissime vittime. I giornali lo chiamano "il coccodrillo", proprio perché questo animale, quando divora i propri figli, piange. L'ispettore Lojacono non si ferma di fronte alle apparenze, sorretto da suo fiuto e dalla sua triste storia personale: un collaboratore di giustizia lo ha accusato di aver passato alla mafia informazioni riservate (cosa naturalmente falsa), e per questo sarà trasferito dalla sua Sicilia, a Napoli, nello sperduto commissariato di San Gaetano. Sarà la giovane sostituto procuratore Laura Piras ad accorgersi di lui, colpita dallo spirito di osservazione di Lojacono. Lo coinvolgerà dunque nelle indagini e Lojacono aiuterà Laura a trovare un collegamento, all'apparenza inesistente, tra i delitti. 

Lo so, lo so, la terribile parola "capolavoro", anche per quanto attiene alla letteratura, e non solo per il cinema, non alberga da queste parti, e quando ce la troviamo, tendiamo a buttarla via subito, come un gatto morto puzzolente. Purtroppo, però, non trovo parole alternative per descrivere questo nuovissimo libro di Maurizio de Giovanni, napoletano, noto ai lettori per la serie di indagini del commissario Ricciardi . Capolavoro perturbante davvero, che non restringerei nella banalizzante categoria del "thriller", ottimo nella sua scarna semplicità di scrittura, nella rapidità delle pennellate descrittive di una città, Napoli, "belva addormentata" nella quale si aggira uno spietato killer, che uccide ragazzi adolescenti, senza apparente ragione, se non quella di straziare i cuori delle famiglie delle vittime. L'ispettore Lojacono, nuovo personaggio di de Giovanni, è poi un tipo pure lui semplicissimo, tratteggiato in modo impressionistico, che l'Autore sembra voglia presentarci quasi di sfuggita (perché certamente lo vedremo ancora, o così speriamo vivamente, in altre successive storie), rivelandoci lentamente la sua vicenda di distacchi (dalla moglie, dalla figlia), una storia traumatica ma non lacrimosa, che viene direttamente dal suo ambiente professionale. Un'altra figura che vedremo sperabilmente ancora in altri romanzi dello scrittore napoletano, è quella di Letizia, donna veracemente napoletana, titolare della trattoria in cui Lojacono si rifugia la sera, dopo il lavoro, a mangiare e soprattutto bere per dimenticare il suo tristo passato prossimo. de Giovanni, insieme alla pasta al ragù di Letizia, ci fa assaporare gradualmente anche l'epifania lenta dell'innamoramento della donna, che scoprirà dentro di sé pian piano emozioni intense verso questo uomo che sembra come naufragato lì, nella sua trattoria, alla ricerca di un'impossibile conforto alimentare. Ma è decisamente la figura del killer, il "coccodrillo", ad aver destato in me grande commozione, termine che ovviamente non uso a caso, perché non capita spesso di provare commozione per un killer similmente spietato, in qualsivoglia romanzo "giallo". Chi ha letto, come il sottoscritto, molta letteratura gialla nordica contemporanea, ha conosciuto assassini terribili (vedansi quelli che abitano le pagine di un Jo NesbØ, ad esempio), verso cui non si può provare alcuna pietà. Si tratta, sempre e solo di "cattivi" e basta, che si meritano la punizione, o almeno questo è il sentimento che l'Autore ci trasmette, ci vuol far provare. Con il "coccodrillo" ci troviamo invece collocati in una posizione emotiva tutta diversa, straniante, che de Giovanni costruisce pagina dopo pagina, attraverso brevi ma efficacissime inserzioni di "lettere" che il killer scrive al suo amore, raccontandogli come prosegue il suo piano. Il piano di sterminio del coccodrillo è infatti organizzato per vendicare il suo amore, e solo alla fine di un tessuto narrativo esemplarmente geometrico e certosinamente cesellato, ne scopriremo insieme a Lojacono le vere finalità. Insieme all'ispettore, quasi in soggettiva, entreremo nella stanza della famiglia Orazi, nella sommamente drammatica scena finale del libro, che da sola, ci legittima a parlare di "capolavoro" perturbante. L'effetto angoscioso si amplifica di molti decibel, se poi il lettore ha figli, perchè de Giovanni di padri e figli/e sta parlando, ma lo capiamo solo a metà libro, quando il coccodrillo ha già versato molte lacrime, sulla scena del delitto. Molto vicino a certi climi anglosassoni alla McEwan, per quanto concerne le tematiche incrociate di morte e rapporti generazionali, pur essendo ambientato a Napoli, il libro evoca risonanze profondissime relative al legame imperscrutabile e spiritualmente "carnale" tra genitori e figli. Tale incrocio viene risolto attraverso la chiave enigmatica dell'inquietudine, della morte come unica chiave di lettura possibile, ma che nella sua angosciante pesantezza, pure genera l'arte della scrittura, perché fa nascere un romanzo come questo che ci lascia attoniti e pensosi, ammirati e plaudenti. "Il metodo del coccodrillo" è infatti un libro terribilmente poetico,  come solo certa poesia sa appunto essere (penso alla Szymborska, ad esempio), nel suo andamento disvelante, che sa cioè aprire finestre verso verità terribili e mai pensate. "Il metodo del coccodrillo": un libro che non solo consiglio, ma che trovo quasi necessario leggere. 

lunedì 4 giugno 2012

The Pact, di Nicholas McCarthy (2012)

Dopo la recente morte della loro madre, le due sorelle Annie e Nicole, tornano a malincuore nella loro vecchia casa di famiglia per porgere l'estremo saluto alla donna. Nicole comincia asentire la presenza di entità misteriose e a fare strani e terrificanti incubi: alcuni rumori la svegliano, oggetti si muovono, e un quadro che cade improvvisamente rivela la presenza misteriosa di una donna nella fotografia della loro madre. Annie lentamente comincerà a scoprire i terribili segreti che si celano dietro la storia della loro famiglia. 

Se teniamo conto che le ghost stories sfornate in questi ultimi anni dalle più svariate produzioni, non sono mai state particolarmente significative sul piano artistico, e se inoltre teniamo conto anche del fatto che il trend modaiolo del mockumentary paranormale ha invaso da tempo le nostre pupille ormai esauste, questo "The Pact", dello statunitense Nicholas McCarthy, esordiente con alle spalle alcuni corti, ci stupisce favorevolmente per la precisione della fattura, nonchè per l'originalità  di certe soluzioni. La storia in sè è banale (come potete leggere dalla sinossi più sopra): due giovani sorelle che ritornano nella casa della madre morta e sono subito assalite da entità invisibili che ne combinano di tutti i colori per spaventarle a morte. Non è la storia, appunto, a rendere il film interessante, bensì il modus operandi di McCarthy, che lo avvicina, in alcuni punti della pellicola, a un Ti West, nel modo di utilizzare gli spazi casalinghi, i rumori, le atmosfere sinistre evocate dalle visioni di Annie. La tecnica cinematografica perturbantogena è usata e dosata a dovere e con una certa passione. Ad esempio McCarthy utilizza un lentissimo, inquietante ralenty all'interno di una sequenza da incubo, congelando tutto e soffermandosi sul primo piano del piede di Annie che sta fuggendo da una visione macabra che le appare in sogno. La tensione di tutta la sequenza è concentrata sulla tensione muscolo-tendinea di quel piede, colto come in una ripresa sportiva, ma generatrice di pathos quant'altre mai. Il film, poi, parte decisamente in quarta, dal momento che a circa venti minuti dall'inizio già tutte le furie demoniache del fantasma infestatore si sono liberate, e noi ci domandiamo cosa succederà dunque nei 70 minuti rimanenti. Succederanno parecchie altre cose in effetti, come ad esempio l'entrata in scena di una Haley Hudson (Stevie) il cui solo sguardo terrorizzerebbe un clan di barbari Visigoti in assetto guerresco, e la cui scelta di casting, da parte di McCarthy basterebbe da sola a rendermelo simpatico. Gli occhioni emaciati e tossicomanici della Hudson sono davvero terribili, ricordano Poe e lo spleen decadente e oppiaceo di Baudelaire, mentre le sue brevi ma intense performance attoriali nella sequenza della trance, la rendono comunque memorabile. Ma è naturalmente "la casa" a farla da padrona: quella carta da parati anni '70, quei mobili polverosi, quelle sedie a dondolo di legno bianco smaltato, e poi le tende di organza leggere, le porte a muro dello sgabuzzino che dà su un buio pesto inilluminabile, i corridoi stretti e cupi. Tutto sembra muoversi pur stando perfettamente fermo, a parte, naturalmente l'anima persa che abita la casa, che si rivelerà nella bellissima e drammatica sequenza della stanza nascosta dietro la parete, nella quale entrerà la giovane Stevie con Annie. Oltre ai luoghi perturbanti, anche ai dialoghi viene inoltre dato uno spazio adeguato, ben gestito (si veda il lungo dialogo, molto yankee e raffinato, tra Giles, il poliziotto, e Annie), portatore di un quid estetico in più che arricchisce l'intero allestimento. McCarthy è magistrale nel concentrare in pochi dettagli visivi una carica perturbante considerevole, e che da anni non vedevo così ben calibrata e successivamente sferrata  come un pugno nello stomaco dello spettatore. Un guanto di velluto che però colpisce eccome, ne sono esempio  le inquadrature spiazzanti e impreviste del pc portatile, oggetto di uso molto comune, nel quale Annie troverà foto da Google (come fa ciascuno di noi molto spesso), che prenderanno vita attraverso metamorfosi che mai ci aspetteremmo. "The Pact", pur lento all'interno di alcune sue parti, mantiene sempre alta la tensione e fluisce con tranquillo moto fino alla fine, dove il quadro dello script si completa in modo coerente. Ottima la fotografia, di Bridger Nielson, sovrailluminata e secca negli esterni, e lievemente contrastata e cupa negli interni, così come ottimamente evocativa la colonna sonora di Ronen Landa, delicata ma incisiva nei momenti giusti. In sintesi "The Pact" è stata una gradevole scoperta che consiglio vivamente di visionare, naturalmente a tarda sera, quando fuori piove a dirotto, e siete in casa da soli. Regia: Nicholas McCarthy      Sceneggiatura: Nicholas McCarthy      Fotografia:       Bridger Nielson Montaggio: Adriaan van Zyl    Musiche:  Ronen Landa    Cast:  Caity Lotz, Casper Van Dien,  Agnes Bruckner, Mark Steger, Haley Hudson, Katleen Rose Perkins, Sam Ball    Nazione: USA    Produzione: Preferred Content       Durata:  89 min.