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martedì 27 marzo 2012

Pausa musicale, in questi tempi crisi

Giovanna Marini a "L'Infedele", ieri sera: commovente.





Poi: "I Treni per Reggio Calabria":
Agli inizi degli anni 70 la città di Reggio Calabria, in competizione con Catanzaro per l'attribuzione del capoluogo di Regione, fu teatro di gravi disordini con blocchi stradali, barricate, occupazione della stazione ferroviaria. La rivolta strumentalizzata dai partiti di estrema destra e capeggiata dal neo fascista Ciccio Franco, caporione di Sbarre, durò più di un anno fino ad assumere i contorni di una vera e propria rivolta contro lo Stato.

Il 22 ottobre 1972 più di 40.000 lavoratori provenienti da ogni parte d'Italia giunsero a Reggio Calabria per testimoniare la loro solidarietà e riaffermare i valori della democrazia sfidando un clima di pesanti intimidazioni e violenza.
Video registrato il 18 luglio 2006 alla cava di Tarpezzo (San Pietro al Natisone Cividale del Friuli) durante lo spettacolo "Storie di lavoro".



lunedì 19 marzo 2012

Intruders, di J.C. Fresnadillo (2011)





Mia, figlia undicenne di John Farrow, è costretta a fronteggiare i demoni della sua infanzia. Purtroppo questi demoni sono molto più che immaginari: sono infatti esseri reali, sanguinari e omicidi, che non esiteranno a tormentare lungamente la famiglia della ragazzina, e non solo...

Dopo gli interessanti (ma non molto di più) "Intacto" (2001) e "28 weeks later" (2007), il quarantacinquenne regista spagnolo Fresnadillo, si muove alla scoperta del "vero" genere horror, ammiccando a del Toro e ad altri spcimen cinematografici affini, ripescando nel mare magnum dei mostri crepuscolari che vengono a visitare i nostri figli, o la parte di noi bambina, mai sopita, mai veramente addormentata e tranquilla. Il film che Fresnadillo arriva a costruire è tuttavia molto barcollante, sotto ogni profilo, sebbene il soggetto farebbe anche ben sperare, proprio perchè toglie di mezzo ogni alone differenziativo tra mondo adulto e mondo infantile, dal punto di vista della condivisione di una paura che si fa palpabile e reale mano a mano che la pellicola scorre sotto i nostri occhi. Non siamo cioè più di fronte al povero bambino che non viene creduto dai genitori quando racconta che nella sua cameretta c'è il babau che lo viene a trovare ogni notte. Il babau se ne frega del paparino e vorrebbe uccidere anche lui, se passa sulla sua strada inesorabilmente tracciata. Fin qui tutto bene. Non fosse che Fresnadillo si incarta in lunghi, pedanti piani sequenza, tutti concentrati sulle figure dei bambini sconvolti dalle intrusioni serotine, come se volesse presentarci una specie di documentario, ma molto patinato e assolutamente filmico su un fenomeno inspiegabile, sebbene chiaramente esplicitato come "storia", "fiaba", e non altro. Ma è appunto la noia "fiabesca" (nel senso della "fabula" jacobsoniana) che uccide questo film, più altre lacune non da poco che attengono alla sceneggiatura, e di cui diremo tra breve. Il film sembra partire a razzo attraverso un montaggio alternato tra interni ed esterni bui e umidicci fatti di vicoli e scale antincendio su cui si aggira la "bestia". L'incipit si risolve però in modo frettoloso e spento, facendo irrompere ampi squarci londinesi aperti e luminosi, come a dirci presuntuosamente: 'attenzione, questo è solo l'aperitivo, poi ne vedrete delle belle'. Non è così: di belle non ne vedremo affatto, se non un uso di macchina e fotografia molto talentuosi (forse soprattutto la fotografia lievemente ma percettibilmente sgranata di Enrique Chediak, che sembra voler fare il primo della classe a tutti i costi). Tutto il plot si arrotola e srotola su una sceneggiatura bicefala che ambienta la medesima storia ma in un due location geograficamente differenti, Madrid e Londra. Non è dato capire il motivo recondito per cui Casariego e Marques (i due writers) abbiano optato per questa soluzione: forse anche loro per mostrare il loro virtuosismo narrativo, ben lontani dalla consapevolezza che, così facendo, mandavano a ramengo una coerenza di fondo di cui lo spettatore sente il bisogno fin dall'inizio del racconto. Lo spettatore rimane così "assetato" di una coerenza che la sceneggiatura gli sottrae senza dargli in cambio un bel nulla. Lo script si limita infatti a mostrare due livelli lontani tra loro di una stessa "fiaba" nera, livelli che permangono nel loro iperuranio narrativo senza colpo ferire, aldilà di un punto di congiunzione che non convince comunque. Juan (Izàn Corchero), il bimbo madrileno, appare come il più tormentato e solo di fronte alle forze brute del Male che vuole divorarlo. Mia (Ella Purnell) sembra spassarsela un pò meglio, circondata da un Clive Owen (John) e da una Carice van Houten genitoriali e affettivi al punto giusto. Ma quelli di Mia e Juan sono comunque due mondi lontani ed eccentrici che Casariego e Marques separano in due galassie distanti, come due pianeti lontani anni luce l'uno dall'altro. Pessima idea per una sceneggiatura che di inquadratura in inquadratura si volge pure al mistico religioso, introducendo insulsamente due preti, uno anziano e l'altro giovane, con l'unico risultato di impastrocchiare ancora di più un intreccio che aveva invece bisogno di maggiori semplificazioni e più linearità. Alcune recensioni che ho letto, "salvano" Fresnadillo sul piano della pura regia, affermando che "gira bene" tutte le sequenze. Non sono d'accordo neppure su questa visione ottimistica di un film che lascia solo il tempo che trova. Fresnadillo si fa invece aiutare dalla fotografia, per girare una storia noiosissima e banale in quanto trascrizione ispano-hollywoodiana di un qualsiasi ritrito "boogeyman". Anche le sequenze di lotta tra John e il "mostro", seppur ben condotte, risultano fredde e irrisolte, senz'anima. Quindi, a mio avviso non è neanche tanto vero che Fresnadillo "gira bene", come alcuni sentenziano.  "Intruders" è in sintesi un contenitore vuoto, che neppure nel prefinale e nel finale oniroide si risolleva, anzi si affossa definitivamente, sul piano del Perturbante. Come vedete, non c'è nulla da salvare, a parere di chi scrive, di questo film, del quale quindi sconsiglio senza ombra di dubbio la visione.  
Regia: Juan Carlos Fresnadillo   Soggetto e Sceneggiatura:  Nicolàs Casariego, Jaime Marques Fotografia: Enrique Chediak   Musiche:  Roque Banos   Cast:  Clive Owen, Daniel Bruhl, Carice van Houten, Kerry Fox, Ella Purnell, Pilar Lòpez de Ayala, Lolita Chakrabarti  Nazione: Gran Bretagna, Spagna, USA     Produzione:Antena 3 Films, Apaches Entertainment, Universal Pictures. 

venerdì 16 marzo 2012

Il leopardo, di Jo NesbØ (2011)



Anno: 2009   Editore:  Einaudi, collana Stile Libero, 2011   Traduzione: Eva Kampmann   Pagine:  767, brossura   ISBN:    Euro: 21,00


Le prime vittime sono due donne, ritrovate con ventiquattro ferite identiche in bocca, morte soffocate dal loro stesso sangue, dopo sofferenze atroci. La polizia di Oslo sa di avere un solo uomo che possiede la capacità di risolvere il caso, e cioè il commissario Harry Hole, fuggito ad Hong Kong per guarire le ferite psicologiche profonde infertegli dall'ultimo caso risolto, quello dell'"Uomo di Neve". Tra le vittime non sussiste apparentemente alcun legame, ma Hole ne trova uno: tutte quante hanno trascorso una notte in uno sperduto rifugio di montagna. 

Non c'è niente da fare. NesbØ è bravo. E' capace di allestire scenari immaginifici improbabilissimi quanto "veri" sul piano dell'intrattenimento narrativo. Ti inchioda alle sue pagine come mosca intontita sulla carta moschicida, e tu sei comunque felice di stare appeso su quella carta giallognola e collosa, senza batter ciglio, finchè giunge a liberarti l'ultima pagina (la settecentosessantasettesima!) che chiude un cerchio lungo quanto tormentosamente coinvolgente. Il tormento deriva anche dalla scelta, molto umana, molto sofferta, da parte dello scrittore norvegese, di innestare sul plot centrale, molte ramificazioni narrative, in primis quella della lenta agonia del padre di Hole, malato terminale ai suoi ultimi giorni terreni. Come scrivevo nella recensione al penultimo libro di NesbØ, "Il leopardo" possiede il pregio di virare la coloritura narrativa verso un horror temperato dalla logica thriller-noir che sottende come al solito, tutta l'architettura del testo. Le prime pagine sono degne di un Ketchum, così freddamente descrittive di una vittima di tortura operata attraverso la mefistofelica "Mela di Leopoldo", strumento di sevizie africano, che ben avrebbe potuto ispirare un saggio regista di genere. Anche le location congolesi e africane in genere, permettono al lettore di sentire brividi freddi dietro la schiena, mentre seguiamo i protagonisti lungo le strade sterrate di Goma, teatro degli efferati eccidi avvenuti non molto tempo fa tra le etnie Utu e Tutsie. La narrazione di NesbØ non lascia scampo dipingendo particolari trucidi di quella insensata carneficina africana, pur mantenendo viva una pietas nei confronti di quel senso di impotenza, di quella freudiana hilflosigkeit di cui tutti siamo, volenti o nolenti, originariamente portatori. Ciò che differenzia "Il leopardo" da altre opere di NesbØ, e che lo rende a mio parere il suo romanzo più maturo, è   propriamente il posizionamento geograficamente  "eccentrico" rispetto alle altre storiei, che sono e rimangono molto nordic. Qui invece il norvegese genera un incipit horror per poi spostare subito il baricentro nei suburbi di Hong Kong , dove troviamo un Hole completamente perduto, un Orlando Furioso abbandonato sulla sua Luna, preso dentro una spirale tossica che lo rende sfuggente ad ogni stereotipo di "eroe" da romanzo giallo qualsiasi. Hole sembra infatti l'esatta antitesi dello  stereotipo narrativo del detective anglosassone o statunitense, cioè il contrario di un Nero Wolfe o di un Tenente Colombo. La "logica" di Hole non è quella del classico investigatore che siamo abituati a seguire nelle nostre letture di thriller. La logica di Hole è una logica animale, fatta di annusamenti, intuizioni sedimentate dall'esperienza, di sfumature e "illuminazioni" improvvise quanto assolutamente insensate alla luce di una buona logica aristotelica. In questo Hole è più vicino al commissario Adamsberg di Fred Vargas che all'Harry Bosch di Michael Connelly, solo che Hole è e rimane un eroe malato, che non si fa amare, neppure dal lettore più affezionato. E questo lo rende, almeno a me, molto simpatico, perché si pone come soggetto libero, anticonformista in senso alto e addirittura filosofico. Come negli altri romanzi, NesbØ non disdegna un certo esibizionismo, un certo uso del birignao narrativo, costruendo situazioni impossibili (come tutta la lunga sequenza della valanga che si abbatte sul rifugio di montagna; oppure come il procedimento a matrioska con cui è organizzata l'agnizione finale del  vero colpevole; oppure la parte finale che ha come protagonista nientemeno che il pericolosissimo vulcano congolese Nyiragongo). Ma ancora una volta (e vi confesso che non so spiegarmi razionalmente il perché), NesbØ si fa perdonare le sue giravolte virtuosistiche, al limite del richiamo alle gesta del James Bond di Fleming. Alcune note negative sono tuttavia presenti nell'opera di NesbØ, e certamente le segnalo: la costruzione psicologica di alcuni personaggi non convince appieno, per esempio quella della collega di Hole, Kaja, che sembra introdotta come un deus ex machina poco caratterizzato e semplicemente funzionale all'andamento della storia. Anche il ruolo di Belmann, temporaneo collega nemico di Hole, e proveniente dalla polizia criminale di Oslo (la famigerata Kripos), non rimane molto nella mente di chi legge, nonostante abbia imperversato lungo il corso di tutte le 767 pagine del libro. Ottima invece la modalità con cui NesbØ delinea la figura dell'assassino, un personaggio davvero diabolico, perfido, assolutamente "cattivo" fino al midollo. "Il leopardo" segna un punto fondamentale nella parabola poetica dello scrittore norvegese, parabola densa di luci e di ombre, come abbiamo segnalato più volte attraverso queste recensioni. In quest'ultimo caso assistiamo invece a un punto luminoso, generatore di lapilli stilistici, come quelli che si alzano dal vulcano Nyiragongo in eruzione. Da leggere.


venerdì 2 marzo 2012

Il Guardiano, di Harold Pinter, Regia Lorenzo Loris (2011)


(Con questo post inauguro una nuova rubrica di recensioni di cui si occuperà questo blog. La nuova tag è "Teatro". Potrete leggere quindi recensioni di spettacoli teatrali che ho visto personalmente in scena).

Teatro Out Off, Milano, Via Mac Mahon, 16.
"IL GUARDIANO" di Harold Pinter
Traduzione: Alessandra Serra
Regia: Lorenzo Loris
Con: Gigi Alberti, Mario Sala Gallini, Alessandro Tedeschi


Lo spettacolo inzia, come in altri testi di Harold Pinter, presentando un'ambientazione tutta chiusa in una "stanza". Il luogo è pieno di oggetti e "residui" di esistenze altre, aliene: un letto di ferro, vasi, barattoli di vernice, sedie, un secchio appeso al soffitto, una falciatrice, un caminetto, la statuetta di un Buddha, In questo strano ambiente assisriamo all'arrivo di un giovanotto, Aston, e di un vecchio barbone, Davies, incontrato dal giovane in un pub dove il vecchio lavorava, e dal quale Davies è stato cacciato malamente. Aston offre ospitalità a Davies. In questa stanza così sinistra, che suggerisce un modo nel quale non abita più l'armonia, Aston propone al vecchio clochard un nuovo lavoro, quel del "guardiano" della casa. Davies non riesce a nascondere tutto il suo rancore nei confronti di chi lo ha cacciato, efino a quando non entra in scena Mick, fratello di Davies. Mick sorprende Davies in casa e gli grida "A che gioco giochiamo!", pensando sia un ladro. Lentamente la storia prende la forma di rivalità, conflitti e tensioni tra i due fratelli, cui Davies sarà attonito testimone. 


Il claustrofobico allestimento di Lorenzo Loris ci immerge subito in un'atmosfera angosciante e sinistra nella quale il dramma dell'incomunicabilità, o meglio, della "non volontà di comunicare" (come suggerito da Pinter stesso in un'intervista riguardante questa sua opera), è imperante e inossidabile. L'elemento tuttavia più interessante di questo "Il Guardiano", messo in scena e prodotto dal Teatro Out Off di Milano, è senza dubbio la traduzione di Alessandra Serra, che ambienta la vicenda in una geografia "padana", cioè milanese, sganciandola dall'originale londinese. Gli outskirts, le periferie di Londra diventano qui Sant'Angelo Lodigiano, Viale Monza. Le zone centrali si fanno Cadorna, Corso Sempione, e così via. Se il luogo è vicino, conosciuto, il tempo è invece inesistente, ucronico: campeggia in fondo al palcoscenico un grande video sul quale scorrono immagini, in un  bianco e nero sgranato, di un esterno cittadino fatto di strade anonime, che potrebbero essere state riprese negli anni '60 o '50. E' presente quindi tutto un lavoro di regia molto interessante, che ha comportato il trasferimento della compagnia a Londra per assistere al dramma in teatri londinesi, nonchè lo studio della pianta di Londra per consentire un riadattamento efficace della piéce  secondo una linea registica che desidera attualizzare le tematiche pinteriane innestandole sul tema dell'emarginazione sociale nel qui e ora del tempo contemporaneo, nel nostro paese. Davies potrebbe infatti essere un clochard proveniente dalla stazione centrale di Milano, e la storia del giovane Aston e del fratello Mick, potrebbe tranquillamente riflettere le vicende di una famiglia disfunzionale residente a Quarto Oggiaro, o in quartieri problematici al limite della banlieu. Ma è appunto l'atmosfera cupa e claustrofobica, tutta virata al grigio, che soffonde tutto lo spettacolo, a rendere bene la poetica di Pinter, una poetica che risente di Beckett, di Sarte, ma che si apre su argomenti "metropolitani", cioè su una riflessione sulla quotidianità cittadina, sulle pieghe di non senso che albergano all'interno di questa quotidianità che ci vive accanto, anche se non ce ne accorgiamo. "Il Guardiano" è infatti, a mio avviso, una rappresentazione del narcisismo-individualismo moderno e dei suoi effetti devastanti sul legame umano, anzi direi sulla capacità che possiede l'assetto narcisistico nel corrodere fin dalle sue fondamenta il "senso" dell'umana reciprocità e solidarietà. La storia è lenta, angosciante fino alla svolta narrativa rappresentata dal monologo di Aston (un Mario Sala Gallini molto concentrato e assorto nel rappresentare in stile Stanislavskij, una comunicazione catatonica, psicotica, quindi anti-comunicativa per eccellenza). Su tale svolta si innesta la presenza arrogante, davvero "narcisistica" del fratello Mick (Alessandro Tedeschi), contraltare adattivo e socialmente, imprenditorialmente funzionante, della psicosi di Aston. Tra questi due poli narcisistici, a farne le spese è ovviamente Davies, un ottimo Gigi Alberti ("Mediterraneo", 1991, "L'ora di religione", 2002, "Quo vadis baby?", 2005) molto confusionario e "barbonesco" al punto giusto, che non riesce mai a trovare un luogo per sè, poichè la "stanza" è la rappresentazione di un "non-luogo-per-l'altro", cioè il luogo dell'esclusione, dell'emarginazione, del non riconoscimento. Come in tutte le opere di Pinter anche questo "Il Guardiano" si chiude aprendosi a varie interpretazioni o ermeneutiche, lasciando lo spettatore con la sensazione che pensava di vedere una storia dalle chiare coordinate, ma che poi si rompe via via che il plot avanza, perdendo ogni senso e  significazioni più o meno rassicuranti. Lorenzo Loris accentua questo elemento di apertura, spegnendo le luci sull'immagine di Aston che guarda dalla finestra il "capanno" che sta costruendo in giardino, incurante delle domande insistenti di Davies. Domande che non troveranno alcuna risposta. "Il Guardiano" è uno spettacolo teatrale che naturalmente consiglio