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lunedì 30 gennaio 2012

La chiave di Sara, di Gilles Paquet-Brenner (2010)



Julia Jarmond è una giornalista americana che vive a Parigi. Quando suo marito le chiede di trasferirsi nell'appartamento parigino dei suoi genitori, scoprirà un mistero sconvolgente legato alla storia di quella casa. Julia comincerà una lunga indagine storica che riguarderà lo sterminio degli ebrei, e in particolare una famiglia ebrea che abitava nell'appartamento. Di questa famiglia Julia scoprirà la storia della loro figlia Sara, e questa storia sconvolgerà per sempre la vita di Julia. 


Esulo momentaneamente dal mio solito genere (il che mi sembra mentalmente salutare) per scrivere ciò che non è una recensione, ma un omaggio a quest'opera altamente poetica, straziante, struggente, e da vedere solo se si hanno i bioritmi in perfetto equilibrio. Spesso ho detto e ripetuto che il cinema francese contemporaneo sembra guidato da un nume geniale che lo illumina ad ogni suo passo, e il regista Paquet-Brenner mi conferma questa sensazione che si rinforza in me di anno in anno. Il film, poi, se vogliamo vederci anche questo aspetto, è molto perturbante, cioè lascia un segno profondo sull'anima dello spettatore, vi si infiltra come una polvere sottile, soprattutto per l'uso modulato di flash-back sulla storia di Sara, e flash-forward sul presente dell'indagine giornalistica di Julia (una Kristin Scott Thomas con accenti drammatico-filosofici da applauso).  Ma, ripeto, occorre vederlo se si hanno tutti i valori emocromatici in perfetta linea coi range normotipici, altrimenti si rischia una immunodepressione emotiva immediata. Il film di Paquet-Brenner non lascia scampo allo spettatore, spiattellandogli in faccia  in 111 minuti incalzanti più di qualsiasi altro film che abbia visto, tutto il peso del senso di colpa storico di NOI europei nei confronti dello sterminio nazista. Attraverso una ricostruzione storica precisa della Francia degli anni '40, Paquet-Brenner mette in scena il dramma di bambini strappati alle loro madri, reclusi in campi di prigionia, vilipesi e trattati come animali. Per inciso, oltre a dover avere i bioritmi saldi, occorre non avere figli per vedere con un briciolo di "serenità" estetica questo film (io ne ho due di figli, e quindi, vi assicuro, è stata dura...). Gli sceneggiatori, Serge Joncour e Paquet-Brenner medesimo, sembrano quasi guidati da un demone vendicativo nei confronti dello spettatore, poichè decidono di rivoltargli addosso il peso di una storia di agonie che si susseguono, una più straziante dell'altra, proprio perchè sono realmente accadute, sebbene "metaforizzate" all'interno di una "storia" filmica, tratta per giunta da un romanzo (di Tatiana de Rosnay). E' un pò come se Joncour e il regista volessero appositamente accostare poesia e realtà (così come indagine giornalistica e film storico), per ottenere un effetto ulteriormente, iperbolicamente, veritativo circa la "memoria della colpa" dello sterminio degli Ebrei. In questo senso il film pesca molto anche in ambito filosofico, e le ultime parole della giornalista Julia Jordan, possiedono giustappunto un sapore filosofico, etico, che risuona altissimo, in modo quasi assordante, nelle ultime toccanti, definitive sequenze del film. La fotografia di Pascal Ridao è essa stessa pura poesia visiva, basti menzionare le inquadrature in campo medio e dall'alto, di Sara e della sua amica Rachel mentre corrono nel campo di grano, dopo essere fuggite dal campo di smistamento francese, per poi raggiungere la fattoria di Jules Dufaure (un Niels Arestrup grandioso, semplicemente grandioso). Stesso discorso vale per la luce che si diffonde e circonfonde lo spettatore durante le sequenze in cui Sara, già adolescente, cammina sulla spiaggia in Normandia, dopo lo sbarco degli americani. Dicevo all'inizio che il film è anche "perturbante", e mi riferisco ovviamente alla sequenza del ritorno a casa di Sara, quando cioè Sara userà, ahilei, la sua chiave, e scoprirà ciò che vedrete anche voi se andrete a vedere questo film. Ho scritto "ahilei", ma sarebbe meglio dire "ahinoi", poichè quel primo piano di Sara va a cadere dentro la nostra anima con un tonfo il cui eco rimane in noi per giorni interi. "La chiave di Sara" è un grande film sull'Olocausto, o per meglio dire è una sublime poesia che ti strazia il cuore, dall'inizio alla fine. Non lo consiglierei certamente a tutti. Anzi, solo a chi possiede il coraggio di avere paura, ed è in perfetta forma psicofisica. 
Regia: Gilles Paquet-Brenner, Sceneggiatura: Serge Joncour, Gilles Paquet-Brenner Fotografia: Pascal Ridao Montaggio: Hervé Schneid Cast: Kristin Scott thomas, Mélusine Mayance, Niels Arestrup, Frédéric Pierrot, Michel Duchaussoy, Dominique Frot, Gisèle Casadesus, Aidan Quinn, Natasha Mashkevich Nazione: Francia Produzione: Hugo Production, TF1, Studio 37,  France 2 Cinema Durata: 111 min.

sabato 14 gennaio 2012

The Innkeepers, di Ti West (2011)



Lo Yankee Pedlar Hotel sta per chiudere definitivamente i battenti dopo anni di onorato servizio. Nelle ultime settimane di apertura sono rimasti a condurlo la ventenne asmatica Claire e il solitario e più maturo Luke, appassionato di case infestate da fantasmi, e che per questa ragione ha fondato un sito web apposito con filmati e foto, ma perennemente "under construction". Più si avvicinano i giorni della chiusura definitiva dell'hotel, arrivano nuovi strani clienti, in particolare l'ex-attrice Leanne Rease-Jones, e un attempato signore che a tutti i costi vuole risiedere nella stanza 353. Misteriosi e cupi avvenimenti cominciano ad accadere. 


"The Innkeepers", ultima opera di Ti West, è un oggetto evocativo-perturbante raffinato, suntuoso, a tratti autoreferenzialmente freddo in modo addirittura disturbante per un certo tipo di pubblico, magari abituato alle solite sceneggiate splatteriformi che Hollywood sforna da mane a sera. A partire dai titoli di testa, con quelle lettere che si decompongono e scivolano via sulla dissolvenza dei nomi in scorrimento, cullati dalla elegantissima, incisiva colonna sonora di Jeff Grace, il film si staglia subito, davanti ai nostri occhi, come un monumento di bellezza non usuale. Ti West si prende tutto il tempo e tutto lo spazio per dire e fare cinematograficamente ciò che desidera: lunghissimi, quasi bergmaniani dialoghi tra i due principali protagonisti; movimenti di macchina lenti, felpati, lontani sideralmente da qualsiasi  frenesia adrenalinica di sorta; effetti speciali dosati in quantità omeopatica, cum grano salis; interazione tra i vari personaggi quasi teatrale, e ingresso di nuovi personaggi all'interno di una sceneggiatura pacata, fluidissima, un velluto narrativo che si srotola piano piano, anzi pianissimo. Questo è almeno ciò che cogliamo nella prima lunga ora di pellicola, nella quale, potremmo dire, banalizzando, che nel film "non succede niente". Ma Ti West non vuole "far succedere", vuole raccontare, e perchè ci sia racconto, occorre si crei il vuoto dell'ascolto. Non si può raccontare, sembra dirci il regista di Wilmington, in un "tutto pieno", in un rumereggiare di  effetti pseudo-perturbanti che servono solo come fuoco d'artificio che poi si spegne e scompare dalle nostre retine. Il raccontare implica un ritrarsi del "pieno", implica appunto un vuoto di tipo zen, nel quale tutto si deve fare silenzioso, perchè poi si senta, si intuisca la presenza, la vera voce del fantasma. Perchè di fantasmi stiamo appunto raccontando, in particolare di quello della defunta Madeline O'Malley, suicida per amore, e il cui cadavere è stato successivamente nascosto in cantina, almeno cent'anni prima dei fatti narrati nel film. Ti West è un regista molto giovane, ha 32 anni, ma in questo film evidenzia un talento, una sapienza visiva, una profondità di riflessione sul genere perturbante, che peraltro aveva già abbondantemente estrinsecato in "The House of the Devil", del 2009, da lasciare increduli. Ma è proprio l'uso del "vuoto", quasi come concetto filosofico sotteso a tutta l'architettura di "Innkeepers", che mi ha fatto maggiormente pensare. Agli occhi di uno psicoanalista come il sottoscritto, questo film appare per esempio come molto "psicoanalitico", proprio per l'uso che fa dell'"assenza", dello "scarto", dell'evocazione, a partire da un genere che, antiteticamente, oggigiorno, sembrerebbe volgere lo sguardo verso il sensazionalistico, il concreto, il corporeo, cioè verso il collasso del simbolico, per stupire, ammaliare, sedurre. In "Innkeepers" è invece presente il pensiero, il segno, il rimando-ad-altro, cioè è un film che sembra di per sè un'interpretazione psicoanalitica, più che un contenuto da interpretare. Non è un sogno, sul quale si può dir qualcosa, è invece l'interpretazione del sogno stesso, in questo suo incedere narrativo-filmico che rimanda ad altro, senza mai mostrarlo appieno, e permanendo sempre in una sospensione di senso che apre all'ignoto del senso che verrà. Per questo sto parlando di film "psicoanalitico", perchè in fondo la tecnica psicoanalitica è proprio questo suo "levare" e non "aggiungere", perchè l'ignoto possa avere la possibilità di mostrarsi. Ti West infatti "toglie", crea spazi, allunga i campi, i tempi, svuota l'immagine da emozioni superflue, iperboliche. Pensiamo ad esempio alla scelta della pallida biondina Sara Paxton: geniale scelta che va nel senso sin qui definito. Una protagonista femminile lontanissima dagli stereotipi hollywoodiani del corpo femminile narcisistico, seduttivo, bulimico, tutto curve e rimandi erotici. La Paxton sembra una volontaria della croce rossa che passava di lì per caso, quando West faceva il casting.  E Pat Healy ha quell'aria da vicino di casa qualsiasi, oppure da vecchio cugino di famiglia tranquillone e nullafacente, ma felice del suo stato di inazione permanente. Entrambi interagiscono in modo sublime, accentuando il contrasto tra il loro liquido presente, e il denso passato condensato nel volto scuro e vuoto di Madeline O'Malley, le cui rare comparse, specificamente nella seconda parte del film, possiedono  l'impronta del "fantasma", ma nel senso psicologico del termine, cioè nel senso del "fantasma perturbante inconscio", il "passato" che si fa "presente" (se creiamo prima uno spazio di ascolto e di visione perchè esso si appalesi). A Ti West, cioè, interessa l'anima delle cose, non il deserto inanimato dell'intrattenimento superficiale e fine a se stesso. Dà grande prova di questo suo interesse esplorativo dell'inconscio filmico umano, e spero vivamente che questa sua ricerca estetica proceda e determini nuove mappe orientative in futuro. Un futuro che, per noi e per lui, gli auguro lungo, lunghissimo. Noi lo seguiremo sempre con entusiasmo e soprattutto con quella curiosità viva e aperta che possiamo vedere negli occhi dei bambini, quando giocano, avvolti in una dimensione in cui si irradia una vera conoscenza emotiva del mondo che li circonda. Ti West sa ritrovare questa dimensione di verità emotivo-estetico-simbolica nell'arte cinematografica cui si dedica. E di questo, grandemente, gli siamo grati.  
Regia: Ti West Soggetto e Sceneggiatura: Ti West Fotografia: Eliot Rockett  Montaggio: Ti West Musiche: Jeff Grace Cast: Sara Paxton, Pat Healy, Kelly McGillis, George Riddle, Lena Dunham Nazione: USA Produzione: Dark Sky Films, Glass Eye Pix (distribuzione: Magnet) Durata: 100 min. 

sabato 7 gennaio 2012

The Darkest Hour, di Chris Gorak (2011)



Un gruppo di giovani amici americani in vacanza a Mosca dovrà far leva su tutte le energie vitali a loro disposizione per fronteggiare un massiccio attacco alieno sottoforma di misteriose entità elettromagnetiche. Gli alieni sembrano indistruttibili...

Orrendamente tradotto in italiano con il tremendo titolo "L'ora nera", "The Darkest Hour" di Chris Gorak, a me non è sembrato così brutto come preventivato da molte voci ancor prima di vederlo. Non è certamente un capolavoro della sci-fi, ma inietta tuttavia guizzi di creatività inusuale nel genere. Innanzitutto perchè tocca di striscio il tema di "Vanishing on 7th Street" (2010) di Brad Anderson, ma se ne allontana subito, a partire da una location particolarmente suggestiva, la città di Mosca, meta esotica e aliena per un americano, già di per sè . Ulteriore spunto originale è l'immagine stessa dell'"alieno", che qui è pura potenza senza altra caratterizzazione o forma. Si tratta cioè di pura energia distruttiva, al cui semplice contatto l'Umano scompare: polvere era e polvere ritornerà, come accadeva, certo nel remake de "La Guerra dei Mondi" (2005) di Steven Spielberg, ma qui senza le movenze riflessivo-moralistiche del regista di E.T. Gorak desidera semplicemente mettere in scena una prospettiva straniante, ripescando da stereotipi del cinema di fantascienza classico, ma senza cadere nel ripetitivo o, peggio, nello scimiottante. Raccontare oggigiorno una storia di "fantascienza" è poi molto difficile, considerata la mole di sottotesti, intrecci e livelli stratificati di storie "già  viste", cioè già raccontate. Il regista, art director di "Fight Club" (di Fincher, del 1999) e di "Minority Report"-2002 (di Spielberg, tratto da un racconto di Philip K. Dick), approdato alla regia con "Right at your door" (2006), sceglie di descrivere "non descrivendo" l'alieno, cioè segnalandocelo soltanto come forza, vettore energetico privo di qualsiasi altra connotazione,  scelta che appare in quanto tale molto riuscita, in primis nel suo intento evocativo e anti-saturante. La storia infatti comincia in modo mollemente edonistico, rappresentandoci questi due amici statunitensi, Sean (Emile Hirsch) e Ben (Max Minghella) che, giunti a Mosca, si apprestano a vivere notti di follie in esclusivi night-club della capitale. L'edonismo post-reaganiano non dura tuttavia molto, poichè gli alieni elettrici mandano tutto in black-out e cominciano la loro caccia all'essere vivente, costringendo tutti a un fuggi fuggi generale per salvarsi la pelle. Si creerà così, casualmente, un gruppetto di sopravvissuti in una città trasfigurata da scenari immediatamente postatomici, che vagherà per la metropoli, da edificio a edificio, dapprima alla ricerca di altri sopravvissuti, e poi di una potenziale arma di difesa dal nemico quasi-invisibile. Come dicevo all'inizio, non siamo di fronte ad un capolavoro di genere fantascientifico, nè tanto meno rispetto all'interazione tra i protagonisti che, in alcune occasioni non fanno altro che urlare e sparare nel vuoto, senza mai colpo ferire in senso estetico-filmico. Tuttavia abbiamo visto cose ben peggiori in altri film più pomposi e presuntuosi di questo "The Darkest Hour", che invece tiene un profilo basso ed equidistante da ogni eccesso, da qualsiasi parte lo si guardi, raccontando una storia dalla sceneggiatura certamente scontata ma che si regge sulle sue gambe dall'inizio alla fine, senza lodi sperticate, ma anche senza infamie particolari. Inoltre, parlando di personaggi e di storia (gli ingredienti essenziali di ogni sceneggiatura, appunto), mi è piaciuta non poco la coppia di russi con gatto annesso, incontrati dai protagonisti sul cammino: bohemien al punto giusto, sembrano appena usciti da un romanzo di Pennac, ambientato nella familiare e rustica Belleville, e donano un tocco di creatività inaspettata a tutto il plot, nonostante la veloce sparizione di uno dei due. Lo script si sfilaccia un pò nel prefinale, che vira verso un finale di pura inverosimiglianza. Ma perchè dovremmo aspettarci di trovare verosimiglianza in un film di fantascienza? Interni ed esterni sono poi allestiti, scelti e fotografati in modo molto suggestivo, e  rendono l'inverosimile decisamente digeribile, tollerabile. Direi quindi che a Chris Gorak va riconosciuto il merito di aver orchestrato un film di intrattenimento sci-fi che si pone decisamente al di sopra di molte opere contemporanee centrate su tematiche affini, e che, principalmente per questo motivo, unitamente agli altri sin qui detti, "The Darkest Hour" è un film del quale senza dubbio consiglierei la visione.
Regia: Chris Gorak Soggetto e sceneggiatura: Jon Spaihts, Leslie Bohem, M.T. Ahern  Fotografia:Scott Kevan   Montaggio: Fernando Villena  Musiche: Tyler Bates  Cast:    Emile Hirsch, Rachel Taylor, Olivia Thirbly, Joel Kinnaman, Max Minghella, Dato Bakhtadze, Yuri Kutsenko. Nazione: USA   Produzione: Recency Enterprises, Summit Entertainment, Bazelev Production  Durata: 89 min. 

mercoledì 4 gennaio 2012

La ragazza senza volto, di Jo NesbØ (2010)





Anno: 2005 Editore: Tr. it. Piemme, Milano, 2010 Traduzione: Giorgio Puleo Pagine: 524 ISBN: 978-88-566-2090-0 Euro: 12,00.


La città di Oslo è coperta da una spessa coltre di neve, e tutti, come ogni anno, aspettano con impazienza il Natale. L'Esercito della Salvezza lavora alacremente per raccogliere fondi per tossici, rifugiati e senza tetto. Quando però, durante il concerto di Natale all'aperto, un membro dell'Esercito della Salvezza viene ucciso in mezzo alla folla festante, il commissario Harry Hole decide di dedicarsi completamente a questo strano caso. Si tratta apparentemente di un caso senza movente, ma è anche una buona occasione per Hole di stare lontano dagli alcolici. 


"La ragazza senza volto" è il quarto romanzo di Jo NesbØ tradotto in italiano da Giorgio Puleo  e pubblicato per i tipi di Piemme nel 2010. Rispetto ai tre precedenti non mi ha convinto, poiché l'ho trovato legnoso in molti punti, arrotolato e irto in altri, troppo involuto in altri ancora e, infine, banalmente virtuosistico in un finale che vuole (perché?) chiudere un cerchio narrativo in modo scioccamente moralistico. Non mi lascerò fermare, naturalmente, da questa delusione sul percorso, e continuerò la serie con "L'uomo di neve" e "Il Leopardo". Sono fatto così: quando incontro un'autore che sa catturare la mia attenzione, lo voglio conoscere bene, in ogni sua parola. Sono ossessivo in questo, e lo riconosco. Tuttavia questo "La ragazza senza volto" segna a mio avviso un punto di stallo narrativo in un autore che nelle tre precedenti opere sa invece produrre azione, psicologia dei personaggi, e gimcane narrative senza eguali. Il romanzo inizia con un flash-back già poco credibile di suo, cioè lo stupro di una ragazzina quattordicenne da parte di un altro ragazzo che poi incontreremo di nuovo nel corso di tutto il testo, fino ad una sorta di agnizione-redenzione finale che mette in campo il gruppo-simbolo dell'Esercito della Salvezza, rappresentazione di un'Amore incondizionato e disinteressato, ma minato al suo interno da una perversione che NesbØ sembra attribuire indirettamente all'intera umanità, allegoricamente. A me non sembra che quest'ultima sia una buona scelta stilistica, semplicemente perché la trovo una scelta grossolana, tagliata con la scure, e per giunta giustificata da una scrittura barocca, che ritaglia architetture alla Gaudì ma in una campagna desolata del Polesine, quindi senza perchè nè per come, o forse solo per esternare una maestria asettica nella costruzione di storie. Il riferimento geografico bizzarro che sto istituendo, e che incrocia appunto la Barcellona di Gaudì con il Polesine, non è casuale, poichè è isomorfa al fatto che NesbØ fa viaggiare continuamente i suoi personaggi, compreso il commissario Hole, da Oslo a Zagabria, mettendoci dentro pure le bombe della guerra di Vukovar, e concludendo il tutto in una toilette dell'areoporto internazionale della capitale norvegese. Tutto questo per organizzare un thriller che ha come focus lo stupro vendicato da un killer di Vukovar assoldato appunto a Zagabria. Una roba insomma estremamente macchinosa, complicata, scarsamente credibile, che a tratti non può che apparire raffazzonata nonostante i fili dell'intreccio siano tesi sempre al punto giusto e la logica del "giallo" si mantenga fino al termine dell'estenuante viaggio che facciamo insieme a Hole e compagni. Ma anche le caratterizzazioni dei nostri "compagni di viaggio" appaiono sterilizzate, rispetto ai precedenti romanzi dello scrittore norvegese. Sterilizzate e schiacciate da una storia mastodontica quanto fredda e coinvolgente sino a un certo punto. Vi confesso che mi dispiace assai sconsigliare questo libro, ma non posso mettere la sordina alle risonanze negative che ha prodotto in me, nonostante NesbØ sia un autore che ho fin qui apprezzato moltissimo. Esistono peraltro crisi dure anche nei rapporti di coppia più consolidati, e quindi non è forse strano che  il benemerito norvegese, musicista rock, giornalista, ma soprattutto autore amato da milioni di lettori, faccia saltare la mosca al naso (leggi: girare i coglioni) al suo pubblico, una volta tanto. "La ragazza senza volto", come dicevo: sconsigliato.