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lunedì 28 novembre 2011

Panic Button, di Chris Crow (2011)



Quattro giovani inglesi ricevono dal loro network preferito, 'All2gethr.com' , un viaggio premio con destinazione New York su un jet privato, a loro totale disposizione. Una volta saliti sull'aereo, dopo aver lasciato a terra i loro cellulari, vengono invitati a partecipare a un nuovo gioco virtuale, attraverso i pc di bordo. Si accorgeranno ben presto che, imprigionati su un velivolo che viaggia a 8000 metri di altitudine, stanno partecipando ad un gioco molto pericoloso, che ha in palio niente meno che la loro stessa vita...

E' interessante questa idea di Chris Crow ("Devil's Bridge" 2010), diciamolo subito e senza indugi. Si tratta, innanzitutto di un film molto inglese, soprattutto nella scrittura, che mi ha ricordato addirittura certe pieces teatrali di Harold Pinter, per l'ambientazione claustrofobica e per l'interazione,  dipinta con toni crudeli, tra i personaggi sulla scena. Come in una commedia di Pinter, la tensione sale gradualmente, per poi sfociare nella gratuità di una violenza umana insensata, quanto intrinsecamente comunque umana. Il sadismo di tutta una situazione che vede i quattro protagonisti rinchiusi nel loro sogno modesto, che si trasforma presto in un incubo, è modulato attraverso i modi freddi della fotografia di un ottimo Simon Poulter, che illumina un clima molto british, sebbene spostato a 8000 metri di altitudine. E' un sadismo gelidamente psicologico, per nulla splatter, ma che, a maggior ragione, genera nello spettatore un effetto straniante, da operazione entomologica con l'insetto al microscopio da osservare nel suo stato di annichilimento senza speranza. La scrittura è davvero ben condotta, perchè parte in maniera lenta all'inizio, per poi procedere a scatti improvvisi, a colpi di scena e azioni di lotta tra i protagonisti, tutti elementi che lasciano il segno su chi guarda, senza voler mai cadere nell'inutilmente spettacoloso e/o effettistico gratuito. Il gioco al massacro si attorciglia lentamente come una vite americana attorno alla nostra curiosità, mantenendola vigile, ma senza  mai toccare troppo seduttivamente le corde di qualsiasi voyeurismo insito in ciascuno di noi.  Guardando il film, mi son detto: 'bè, son proprio bravi gli inglesi', tanto quanto ho avuto modo, varie volte, di dire: 'bè son proprio bravi i francesi'. In fatto di horror, naturalmente. Gli inglesi, tuttavia, come ho avuto modo di ribadire in altre recensioni a film anglosassoni, sembrano avere quel pizzico di cinismo filosofico in più, quel senso di letterario pessimistico-esistenziale che gli arriva chissà da dove, forse da Poe, forse addirittura da Shakespeare in persona, non lo so. Fatto sta che questo "Panic Button", oltre a farmi associare Pinter, mi ha fatto venire in mente il McEwan di "Cortesie per gli ospiti", per esempio. Il che non è poca cosa rispetto ai miei filoni associativi preconsci che abito e frequento più abitualmente. Ma torniamo al film, molto teatrale, molto drammaturgico, ripeto, nel senso proprio del "drama", nel quale i protagonisti si muovono recitando in modo sobrio ma intenso, mai isterico, o urlato, ma sempre sul pezzo, sul copione, consapevoli del fatto che loro sono lì per dar vita a una storia. Crow li dirige con movimento di macchina pacato, ovviamente quasi sempre in piano medio o primo piano, considerata l'angustia dello spazio dell'aereo maledetto, e alternando spezzoni video in bianco e nero, girati con videocamera digitale amatoriale in cui ci vengono mostrate le sequenze più violente. Aldilà del sottotesto un pò vieto, e di ispirazione chiaramente sociologica, che mira ad una critica dell'anonimato di certe frequentazioni del web indirizzate verso una deriva etica che Crow mette in primo piano nel suo script, se vogliamo trovare un ulteriore difetto nel film. questo è senz'altro l'uso della voce fuoricampo dell'aguzzino. Tale espediente ci ricorda troppo Jigsaw/Kramer della saga di "Saw", e non ci spieghiamo perchè Crow opti per questa banalissima soluzione, innestandola su una pianta che coltiva con tanto amore per 91 minuti di pellicola. Infatti è a partire dall'incipit, molto potente, spiazzante, che il regista mostra un talento inusuale, per poi introdurre questo aguzzino fantasmatico che però ci ricorda troppo il solito Jigsaw. Fortunatamente si tratta di una nota stonata che tutta l'architettura del film demistifica e ridimensiona alquanto, modulando sapientemente l'apparato estetico-visivo in ben altre e diverse direzioni rispetto a "Saw". Si poteva comunque a mio avviso evitare questo rimando, sebbene Crow non lo accentui oltre il limite del sopportabile. Terminiamo con una nota di merito alla colonna sonora di Mark Rutherford, che sa infiltrarsi nei punti giusti nella narrazione, sottolineando in modo fine e incisivo i momenti di svolta della storia. "Panic Button" è in sintesi un film che mi sento decisamente di consigliare. 
Regia: Chris Crow  Sceneggiatura: Chris Crow, Frazer Lee, John Shackleton, David Shillitoe   Montaggio:  John Gillanders  Fotografia: Simon Poulter   Musiche:  Mark Rutherford  Cast: Jack Gordon, Millie Midwinter-Lean, Elen Rhys, Scarlett Alice Johnson, Michael Jibson Nazione: Gran Bretagna     Produzione:  Movie Mogul Films  Durata:  91 min.

lunedì 21 novembre 2011

Don't be Afraid of the Dark, di Troy Nixey (2010)



Sally Hurst, ragazzina introversa e solitaria, è appena giunta a Rhode Island per vivere con suo padre Alex e la sua nuova fidanzata Kim, presa un'antica casa del 19esimo secolo, che stanno restaurando. Mentre esplora la magione labirintica, Sally scopre una cantina nascosta, cui nessuno era mai giunto prima, eccetto il primo proprietario della casa. La ragazzina lascerà libera, senza volerlo, una razza di creature abitatrici del buio, dovrà convincere Kim e Alex della verità di questa sua scoperta...


E' presto detto che una pellicola prodotta e sceneggiata da Guillermo del Toro si fa guardare molto volentieri, soprattutto per capire meglio "dove vanno" l'immaginario e la poetica di questo interessantissimo regista. Ma questo, tanto atteso "Don't be Afraid of the Dark" non l'ha girato lui, bensì il suo protetto Troy Nixey, che si aggira nei labirinti fauneschi dell'immaginario deltoriano, cercando di non schiacciare i piedi al maestro, omaggiandolo, ma tentando anche di dire qualcosa di personale. Ci riesce? La mia risposta è assolutamente no, che potrei anche esprimere con il noto proverbio: "la montagna ha partorito un topolino". Monumentale è infatti l'allestimento scenografico, costituito principalmente da una enorme casa ottocentesca, ripresa in lungo e in largo in uno stile che fa sommessamente (e pateticamente) l'occhiolino al kubrickiano "Overlook Hotel". Ma qui non c'è traccia di alcuno "shining", c'è solo una bimbetta neanche tanto simpatica che a differenza dei suoi coetanei non ha paura di nulla, tantomeno di cantine muffose e oscure abitate da orridi animaletti schifosi e aggressivi, alla faccia di ogni ragionevole teoria del trauma infantile. La nostra Sally è inoltre incastrata all'interno di una sceneggiatura molto stantia e polverosa, che la vede edipicamente rivaleggiare con la nuova, bella, formosetta fidanzatina di papi, che naturalmente stravince su di lei in fatto di seduzione femminile, il che naturalmente rende Sally invidiosa e cattiva al punto da diventare inconsapevole medium verso l'aldilà dei mostriciattoli mordaci, i quali rappresentano il suo stesso odio. Originale, vero? Scherzi a parte, ci pareva in verità di aver già visto lo stesso canovaccio narrativo in "Coraline" (2009), di Henry Selick, ma Nixen non sembra affatto curarsene, tirando dritto per la sua strada, che considera probabilmente molto originale. Non così risulta però allo spettatore, che, memore di "Coraline", si aspetta che da un momento all'altro Sally sia risucchiata (finalmente!) dalla bocca del forno in cantina, ed entri nell'altro mondo fantastico, abitato da mostruose creature dai volti familiari. Ma non accade neppure questo, e l'unica sequenza interessante rimane quella dell'attacco a Sally da parte dei mostriciattoli rattiformi, nella grande biblioteca. Ben poca cosa tuttavia, e soprattutto scarsamente perturbativa dei nostri animi avvezzi a ben altre bombe emotive. I genitori di Sally sono poi praticamente l'antitesi di Jack e Wendy di "The Shining"; sono cioè due marionette legnose e inespressive al massimo grado dell'umana possibilità di rappresentazione, e per questo facciamo loro i complimenti. Peccato però che non dovevano qui interpretare delle marionette tipo Pinocchio, e a un certo punto uno pensa che abbiano sbagliato set, quantunque il buon Nixey li riprenda comunque col suo teleobiettivo. Un gran pasticcio, insomma, una fricassea di luoghi comuni condensati in 99 minuti di pura noia pseudo-neogotica, intinta per qualche secondo in una salsina à la Del Toro, il cui aroma cinematografico si disperde subito, non appena addentiamo il boccone. Ci domandiamo quindi come mai il grande chef Del Toro abbia desiderato così ardentemente porre il suo imprimatur su una pellicola così poco comunicativa, espressiva, perturbativa. Personalmente tale domanda rimane un grande mistero inglorioso per Del Toro, e fallimentare per Nixey. Discorso affine va fatto per l'utilizzo dei "mostri", che sono di una banalità a dir poco sconcertante, e, piuttosto, molto simili ai folletti che fanno i cassieri nella Banca di Harry Potter (vi ricordate? sì, quelli col naso adunco e con gli occhialini): ciò che di meno "mostruoso" si possa mai vedere in un film. Il regista ce li mostra poi col contagocce, e solo a circa tre quarti di pellicola riusciamo a scorgerne la faccia, che sembra un "bu-bu-settete" da scherzetto di Halloween abbandonato in soffitta da qualche bimbetto annoiato dalla noiosa provincia americana che lo circonda. Come avrete ormai capito bene, il film non si fa apprezzare da nessun punto di vista, neppure da quello della colonna sonora (di Beltrami e Sanders), nè da quello della fotografia (di Stapleton), che insiste sui toni acidi, forse per imprimere vanamente un senso di decadenza ottocentesca alla Dorian Gray ad una storia che non ne sente proprio la necessità. "Don't be Afraid of the Dark", film molto deludente e poco credibile. Sconsigliato. 


Regia: Troy Nixey Soggetto e sceneggiatura: Guillermo del Toro, Matthew Robbins Fotografia: Oliver Stapleton Montaggio: Jill Bilcock Musiche: Marco Beltrami, Buck Sanders Cast: Guy Pearce, Katie Holmes, Bailee Madison, Alan Dale, Julia Blake, Nicholas Bell, Edwina Ritchard Nazione: Australia, USA Produzione: Gran Via, Miramax Films, Tequila Gang Durata: 99 min.

sabato 12 novembre 2011

Hallelujah



Berlusconi si è dimesso. E' un giorno storico per la nostra democrazia. Dopo molti, troppi anni, possiamo finalmente segnalare questa buona, ottima notizia.  

martedì 8 novembre 2011

Lo Zen e l'arte di non sapere cosa dire, di Stefano Bolognini (2010)



Anno: 2010 Editore: Bollati Boringhieri Pagine: 150 ISBN: 978-88-339-2149-5 Euro: 14,00


Considerata l'ininterrotta pioggia battente di questi giorni e i cieli plumbei che ci sovrastano, mi sembra buona cosa alleggerire l'aria e l'atmosfera autunnale, parlando di questo gustosissimo libro di Stefano Bolognini, psicoanalista di Bologna, Presidente della Società Psicoanalitica Italiana e da pochissimo eletto Presidente dell'IPA (International Psychoanalytical association). E' utile premettere che questa sua ultima opera non è un libro di psicoanalisi, cioè non si rivolge affatto agli addetti ai lavori. Al contrario si rivolge a chiunque, poichè vuole descrivere, come recita il sottotitolo in copertina, "le strabilianti avventure nascoste nella vita quotidiana". Con mano leggera e spirito associativo-evocativo da uomo della strada che cammina nel mondo e riflette sui cambiamenti dell'oggi, non dimenticandosi della memoria sociale e familiare che sottende questo "oggi" che viviamo, Bolognini ci propone semplicemente sue riflessioni riguardanti il quotidiano, dipinto secondo le sue varie coloriture. Si tratta di brevi capitoletti a tema, quali ad esempio, l'uso che i giovani fanno dei progetti Erasmus, oppure da dove deriva il gusto universalmente condiviso della cotoletta, oppure ancora le sensazioni nascoste che proviamo quando i mendicanti per strada ci chiedono l'elemosina. Come si vede sono temi derivanti dalla quotidianità più quotidiana, una quotidianità dietro la quale si celano mondi, immagini, storie, che attraversano la Storia e giungono al Presente formando e informando le nostre percezioni giornaliere. Lo stile di Bolognini è spassoso, e insieme delicato,  riflessivo, introspettivo, come era accaduto anche nel suo precedente "Come vento, come onda" (2008), altra opera che consiglio vivamente di leggere. "Lo Zen e l'arte di non sapere cosa dire" sembra un dipinto ad acquerello, composto da lievi tratti dai colori pastello, come quei piccoli arcobaleni che si intravvedono in giardino, tra una quercia e una camelia, durante certe pioggerelline primaverili. E' un toccasana per lo spirito, un digestivo delicato per questi tempi bulimici, perchè invita a fermare il tempo, a fermarsi di fronte alle vicende quotidiane che ci occorrono, invitandoci a pensarle, disvelarle, soppesarne l'importanza. Il libro è anche un omaggio alla Storia e alla memoria in quanto tale, poichè in molte sue parti ha come protagonista la famiglia bolognese dell'Autore, cioè i suoi "avi": il quadrisnonno Raffaele, che "emigra" da Bologna a Imola intorno al 1880, ma poi, terrorizzato da tale distanza (circa 30 chilometri), fa dietrofront e ritorna alla sua amata Bologna; la nonna Clementina, che, interpellata su vari argomenti, soleva appunto rispondere "Non si sa che cosa dire", sospendendo il senso delle cose, e aprendo la mente altrui a pensieri ulteriori e insaturi. Dietro queste storie si coglie la grande umilità e soprattutto il grande amore per l'Umano, da parte di un Autore la cui passione per la Psicoanalisi, come metodo conoscitivo e come cura (di sè e dell'altro), si coglie palpabilmente, in filigrana, tra le pagine del libro. "Lo Zen e l'arte di non sapere cosa dire": consigliatissimo, e da leggere mentre fuori piove, seduti sulla poltrona più comoda del salotto, sorbendo una tisana calda, e lasciandosi andare, abbandonando la mente ad una dimensione il più possibile sognante e introspettiva.