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sabato 24 settembre 2011

A Dangerous Method, di David Cronenberg (2011) - Anteprima Nazionale




La controversa e conflittuale relazione tra Freud e Jung, aldilà delle dispute teoriche che la contraddistinse, fu anche attraversata dalla vicenda di Sabina Spielrein, paziente di Jung nonchè sua amante segreta, che diventò a sua volta psicoanalista molto acuta, al punto da influenzare il pensiero dell'ultimo Freud. Il film trae spunto dall'opera teatrale "The Talking Cure", di Christopher Hampton e dal libro "A most dangerous method", di John Kerr. 

"A Dangerous Method", che ho visionato all'anteprima nazionale organizzata a Milano dalla Società Psicoanalitica Italiana, segnala a mio parere un'evoluzione artistica significativa del cinema di David Cronenberg. Il regista canadese sposta infatti il baricentro della sua poetica verso un orizzonte puramente mentale. Gli interessa il dramma psicologico (come già avviene peraltro in "A History of Violence", 2005), non più la trasformazione psicofisica (come in "La Mosca", 1986, o "Inseparabili", 1988 o "Crash", 1996), e perché questa sua svolta sia la più chiara possibile, prende in esame il conflitto tra due grandi menti della storia della psicoanalisi, cioè quella di Sigmund Freud e quella di Carl Gustav Jung. Da tale conflitto trae origine la nascita della Psicoanalisi stessa, attraverso vicende complesse come quella di Sabine Spielrein, paziente di Jung, che ne diventerà l'amante, nonchè successivamente collega (diverrà psicoanalista infantile, sotto i buoni auspici di Freud, dopo essersi definitivamente separata dalla storia con Jung, e porterà la psicoanalisi in Russia, dove sarà fucilata dai nazisti insieme alle sue due figlie, Renata ed Eva).  La prima cosa che mi è venuta in mente dopo la visione di "A Dangerous Method", è che a Cronenberg non interessa qui il tema della relazione erotico-sentimentale tra paziente e analista. Non è quel tipo (comunque grave) di trasgressione, che il regista intende esplorare. Cronenberg desidera invece investigare il tema del contrasto - potente, pericoloso, dangerous- tra due anime, tra due individui, legati insieme dai loro imperscrutabili intrecci inconsci . E' lo scontro, la violenza psichica (come in una sorta di "Crash", ma non più dal peso materico di corpi e metalli automobilistici) tra due menti nel loro avvicinarsi e interagire su piani profondi, che desta il totale interesse del regista e lo assorbe in 99 minuti di grande intensità, che mettono in scena con grande sapienza e potenza il rapporto tra Freud e Jung, soprattutto nella sua declinazione - squisitamente psicoanalitica- di rapporto paterno-filiale. Quest'ultima prospettiva la vediamo squadernata con grande poesia nella sequenza della traversata oceanica verso gli Stati Uniti, dove Freud, Jung, Ferenczi e altri psicoanalisti si recheranno nel 1909, invitati dal presidente della Clark University, G. Stanley Hall, e dove Freud terrà le note "Cinque Conferenze sulla Psicoanalisi". E' notte, e mentre Freud cammina sul ponte della nave, Jung gli racconta un sogno molto articolato, che Freud gli interpreterà come espressione di un desiderio parricida di Jung nei confronti di Freud stesso. Jung non accetterà tale interpretazione, e chiederà a Freud: 'Bene, adesso mi racconti lei un suo sogno'. Freud-Mortensen gli risponderà, in modo enigmaticamente secco, più o meno nel modo seguente: 'Non posso raccontarle un mio sogno, poichè metterei a repentaglio la mia stessa autorità'. Cronenberg sembra far ruotare tutto il suo schema narrativo su questo dialogo, a partire dal quale Jung prenderà definitivamente le distanze dal suo maestro, senza accorgersi che Freud, con quella frase enigmatica, gli stava in realtà consegnando un prezioso insegnamento tecnico, e cioè la necessità, per l'analista, di saper mantenere una giusta assimetria relazionale rispetto al paziente. Ma è proprio questa asimmetria, cioè l'Autorità del suo medico, che Sabina Spielrein sta minando fin dalle sue fondamenta, trasformando il transfert erotico con Jung in relazione erotico-sentimentale vera e propria. L'intreccio tra  relazione conflittuale Freud-Jung e relazione carnale Jung-Spielrein è modellato con modalità quasi neoclassica da parte del regista canadese, che rende plastica, come una statua di Rodin, tale intreccio, mantenendolo, come dicevo più sopra, sempre sul piano dello spirito, del pensiero, della passione come moto di anime che si riguardano reciprocamente modificandosi, trasformandosi sì, ma pericolosamente. La modalità scultoreo-plastica che sto cercando di descrivere è conseguita senz'altro anche dalla gestione di un cast molto immedesimato, molto aderente alla psicologia dei personaggi. Si racconta che Viggo Mortensen durante la conferenza stampa al Festival di Venezia, abbia fatto un intervento molto acceso nel quale invitava i familiari di Jung a rendere pubbliche molte delle sue lettere, ancora non pubblicate. Uno degli analisti presenti in sala durante il dibattito dell'anteprima (Roberto Goisis, responsabile dello Spazio Cinema di Spiweb.it) ci ha riferito che Mortensen, in qualla conferenza stampa sembrava uno psicoanalista ad un congresso, più che un attore, tanto si sentiva identificato nella parte! Anche Michael Fassbender (Jung) è molto ispirato nel rappresentare l'arianesimo altoborghese dello psicoanalista svizzero, contrapposto al pessimismo ebraico del padre della psicoanalisi. Keyra Knightley teatralizza i sintomi isterici di Sabine in modo addirittura filologico (Cronenberg ha effettivamente studiato le cartelle cliniche dell'Ospedale Burgholzli, dove fu ricoverata). Oltre alla modalità "scultorea" della rappresentazione filmica, un secondo elemento stilistico di questo intenso lungometraggio, è senza dubbio la meticolosità della ricostruzione storica operata da Cronenberg: respiriamo atmosfere realmente ottocentesche, ne cogliamo l'anacronismo, la lontananza siderale dai tempi attuali. Basti pensare alla quantità di lettere che i protagonisti si scrivono con carta e penna, proprio, e ovviamente, "come una volta". Lo studio di Freud è poi ricostruito con ossessiva maniacalità, e pare che il regista sia addirittura riuscito  a scoprire la marca dei sigari fumati dal maestro viennese. L'uso che Cronenberg fa di tutta l'atmosfera "anacronistica" che è capace di evocare nel film mediante la puntuale ricostruzione scenografica della Vienna dei primi del '900,  è molto interessante e apre molteplici scenari di riflessione rispetto alle trasformazioni culturali e antropologiche cui è andata incontro la società post-moderna e attuale. Sto dicendo che Cronenberg, in questo film, forse molto più che in altre sue opere, è in grado di esprimere una capacità rappresentativo-simbolica, attraverso l'uso di immagini, molto elevata ed emotivamente profonda, aspetto che non può non interessare uno psicoanalista.  L'affaire Jung-Spielrein rimane quindi, a mio modesto avviso, quasi accessorio, rispetto ad altri sottotesti, quasi un pretesto per parlare dell'idea di "trasformazione", altro concetto molto caro agli psicoanalisti e introdotto da Wilfred Bion. Per Cronenberg (come per Bion) la "trasformazione" psichica non è però priva di rischi, passa cioè attraverso quello che Bion chiama un "cambiamento catastrofico", un contrasto radicale, abissale, che non può che essere pericoloso. Forse si tratta anche di un auspicio, quello di Cronenberg, mediato attraverso le immagini "antiche" dell'ottocento viennese: l'auspicio che i tempi moderni che viviamo siano ancora in grado di sostenere e promuovere "rivoluzioni copernicane"; e anzi, sembra volerci dire il regista canadese, forse solo questo è il modo in cui l'umanità potrà progredire, a patto che sappia affrontare umilmente i pericoli che ogni cambiamento comporta. "A Dangerous Method": film di cui non si può mancare la visione. 
Regia: David Cronenberg Sceneggiatura: John Kerr, Christopher Hampton Cast: Viggo Mortensen, Keyra Knightley, Michael Fassbender, Vincent Cassel, Sarah Gadon, André Hennicke, Arndt Schwering-Sohnrey, Mignon Remé, Mareike Carrière Nazione: Canada, Germania, UK, Svizzera Produzione: Recorded Picture Company, Lago Film, Prospero Pictures Durata: 99 min Uscita nelle sale in Italia: 30 settembre 2011.

mercoledì 21 settembre 2011

Shark Night, di David R. Ellis (2011)



Un gruppo di sette amici decidono di passare un week-end sul lago Pontchartrain, nel golfo della Lousiana, presso la casa di vacanze dell'amica Sara. Saranno presi alla sprovvista dalla presenza di famelici squali che trasformeranno la loro vacanza in un incubo...

La mitopoiesi filmica dello "squalo", Leviatano trasmigrato dalla leggenda alla cultura popolare intorno agli anni '70, ad opera di Spielberg (dal romanzo di Peter Benchley), ritorna oggi attraverso la lente interpretativa del regista David R. Ellis ("Final Destination 2", 2003, "The Final Destination", 2009, "Cellular", 2004, "Asylum", 2008). Tale lettura cerca, giustamente, di discostarsi dai prototipi spielberghiani delle origini, iniettando quel tanto di new generation spirit utile a dare freschezza al copione. Ecco dunque che Ellis costruisce ad hoc il gruppo dei giovani trentenni aitanti e agiati, surfosi e scattanti sui loro yacht, incuranti delle crisi economico-finanziarie globali, al di sopra e aldilà della politica sinistrorsa obamiana, in sintesi quasi surreali a vedersi. Tale "sur-realtà" viene lacerata e spappolata dalla "realtà" costituita dallo squalo, che entra in scena amputando il braccio di Malik (Sinqua Walls), senza farsi troppi problemi. Allora cerchiamo di capire cosa vuole simboleggiare lo squalo di Ellis, rispetto ad altri squali prototipici statunitensi, poichè è chiaro che ogni epoca ha il suo squalo. E' molto probabile che il vorace mostro marino spielberghiano rappresentasse la nuova economia degli yuppies rampanti, nuova generazione di barbari che minacciava, all'epoca, di radere al suolo la rassicurante tradizione contadina dell'old west. Ritengo che lo squalo di Ellis rappresenti invece lo spettro della depressione, declinata in tutti i modi in cui vogliamo considerare il termine depressione, ma soprattutto nel senso di recessione economica incombente. Una crisi economica che fa diventare merce da macello l'individuo, spogliandolo di qualsiasi umanità: questo credo sia il sottotesto che Ellis desidera veicolarci. L'invenzione dei due cattivi compari Dennis e Red, sembra andare esattamente in questa direzione interpretativa. Sullo sviluppo del plot mi fermo qui, per evitare inutili spoiler, tuttavia non posso evitare di sottolineare questo sottotesto, dal momento che è evidentissimo, e gli sceneggiatori (Hayes e Studenberg) lo amplificano a dismisura. Il problema capitale del film risiede  proprio in questa "dismisura" dello script, aspetto che finisce col porre in secondo e terzo piano il ruolo mitopoietico dello Squalo stesso, che diventa una comparsa man mano che il film procede nel suo (lento) minutaggio. Innanzitutto scopriamo che lo squalo non è uno solo, ma nel lago vi sono pesci pericolosi di vario tipo: squali bianchi e squali tigre, ad esempio, elemento che la sceneggiatura certamente arriva a spiegarci, facendo però virare tutto il pathos su territori tutto sommato prevedibili rispetto a certa cinematografia horror contemporanea. Ellis inoltre decide di girare gran parte della storia in notturna, con l'aiuto di una fotografia (di Gary Capo) peraltro efficace, ma che mette ulteriormente in soffitta il fascino maligno del pesce-mostro. Le sequenze degli attacchi non possiedo poi una significativa potenza che tocchi in qualche modo il nostro immaginario, anche perchè il prefinale e il finale assumono un andamento caotico, nel quale la rissa, lo scontro fisico e le pallottole volanti prendono inopinatamente il sopravvento. Fa eccezione la sequenza della morte di Beth, sanguinolenta e sadica al punto giusto, ma non lontana, anche qui, da certi stilemi torture-porn che ci hanno ormai stufato a sufficienza. Il film si trasforma lentamente sotto i nostri occhi in una specie di survival-horror alla marinara, nella quale, poi, la lotta finale tra i due maschi edipici nella gabbia sott'acqua, sposta tutto il baricentro della storia sulla coppia, allontanandoci ancora di più da qualsiasi brivido avessimo sperato di percepire sulla nostra pelle guardando il film. Non pago di tale chiosa rassicurante, Ellis chiude la partita con una inquadratura dello squalo cattivo, di una banalità urticante. Per farla breve "Shark Night" manda a pallino ogni possibilità di elaborazione, o revisione interpretativa originale di un costrutto stilistico molto amato da molti spettatori horrorofili, anche mediante l'ingaggio di un cast piuttosto sciatto, stereotipizzato, e che non sa essere mai all'altezza dei sottotesti che Ellis vorrebbe veicolarci. "Shark Night": visione non del tutto sconsigliata, ma comunque deludente in sommo grado, almeno per le mie papille gustative di squalo cinefilo.
Regia: David R. Ellis Sceneggiatura: Will Hayes, Jesse Studenberg Fotografia: Gary Capo Montaggio: Dennis Wirkler Cast: Sara Paxton, Dustin Milligan, Chris Carmack, Courtney Hope, Sinqua Walls, Joel David Moore, Chris Zylka, Katharine McPhee Nazione: USA Produzione: Incentived Filmed Entertainment, Next Films, Sierra Pictures Durata: 91 min.

mercoledì 14 settembre 2011

Contagion, di Steven Soderbergh (2011)


Un virus letale comincia rapidamente a diffondersi tra la popolazione mondiale. Il Dr. Ellis Cheever è a capo di un team di scienziati che cercherà di contenere la terribile epidemia...

Dopo i vari "Ocean's Eleven" (2001), "Ocean's Twelve" (2004), "Ocean's Thirteen" (2007), e  "Traffic", vincitore di ben 4 Oscar nel 2001, Steven Soderbergh si cimenta con il genere apocalittico-virale, cimento dal quale esce vincitore, lasciandoci tuttavia a mio avviso qualche penna che non ci fa certo gridare al capolavoro. Il film è ben costruito, e sa muoversi su vari piani di sottotesto: la denuncia del potere paranoideo dei media, di internet in particolare; l'etica scientifica; l'insipienza della politica; la "banalità del male" insito nella natura; l'ananke che sovrasta il capo di tutti noi, mai e poi mai padroni del nostro destino; la precarietà della Vita. Tutti gli attori rifulgono poi di luce propria, senza che si tolgano luminosità gli uni con gli altri. Gwynet Paltrow regge praticamente le sorti di tutto il film, e della sua originale costruzione narrativa à rebours. Matt Damon, pur non convincendoci nella sua parte di vedovo che non versa una lacrima, è pur sempre solido nella sua parte di "fortunato" portatore sano del virus. Laurence Fishburne, il Dr. Cheever, tratteggia un personaggio molto umano che impersona le spinte etiche di un'umanità completamente allo sbando, soprattutto sul piano dell'etica condivisa.  Il film entra subito in medias res, collocando la nostra testimonianza passiva di spettatori al 2° giorno di epidemia, nascondendoci cioè ciò che è accaduto al "paziente zero" (Gwynet Paltrow) il primo giorno. Rapidamente assistiamo all'espandersi pandemico di un virus letale che non lascia speranza alcuna a chi viene contagiato, e il ritmo narrativo si fa sempre più incalzante e veloce, attraverso la tecnica di un montaggio andante con moto che non stanca mai l'occhio, ma che al contrario ci accompagna all'interno delle sorti maligne che l'umanità attraversa. Abbiamo detto però che Soderbergh ci lascia qualche penna, e dirò subito quali sono i punti in cui secondo me casca l'asino: il sonoro e il perturbante. La colonna sonora di Cliff Martinez è pessima, poichè vuole sottolineare il crescente clima catastrofico mediante l'insistenza di bassi elettrico-sintetici che con il visivo c'entrano come i cavoli a merenda. Le musiche raffreddano cioè un'atmosfera che vuole essere apocalittica nelle immagini. Una grande contraddizione che francamente non ho capito. Già a partire da questo elemento tecnico il Perturbante viene a sua volta attutito e raffreddato fino a scomparire del tutto, fatta eccezione delle prime sequenze in cui muore per contagio il bambino di Mitch Emhoff (Matt Damon). Tale freddezza dell'allestimento scenico generale raggiunge i suoi massimi durante le sequenze girate nei laboratori dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), nei quali non accade nulla di inquietante: il mondo là fuori va a fuoco, mentre qui dentro, ehi, ci sono gli scienziati che non perdono la testa come voi mortali, e vi salveranno, altro che quegli idioti di internet. "Contagion" infatti gronda di speranza da tutte le inquadrature, e questo ammortizza automaticamente e depotenzia tutti gli altri possibili sottotesti che collateralmente ci propone. In questo senso, alla fine, non è per niente un film "apocalittico", cioè non inietta alcun sentimento perturbante di sorta, in quanto risulta rassicurante, investendo la Scienza di un ruolo salvifico, etico,  riequilibratore dei destini dell'umanità. Sembra quasi che Soderbergh voglia aderire alle recenti scuole di filosofia neo-realistica (new-realism), allontanandosi da qualsiasi "pensiero debole" che rifletta sulla fragilità dell'umano. Perchè Soderbergh faccia questo tipo di scelta non ci è dato sapere, ma rimane il fatto che noi vediamo un montaggio alternato in cui si intrecciano storie differenti che alla fine acquistano una loro coerenza interattiva solo con il trionfo della Scienza sul Caos. Ma ciò accade in modo appunto "freddo", sterile, come le camere sterili in cui viene studiato il virus. Il film è a mio avviso da vedere, poichè la mano registica è raffinata e anche poetica in alcuni punti: si sente l'amore per l'umano farsi e disfarsi delle cose. E questo amore è reso con un tocco estetico che non capita spesso di cogliere al cinema. Ma se decidi di leggere l'Apocalisse di San Giovanni, non puoi, dopo, darne una interpretazione semplicemente razionalista, alla Bertrand Russell, diciamo così. La "paura" (Fear) di cui parla la locandina, è inoltre una falsa pista, perchè anche su quel piano l'angoscia del contagio non viene mai colta e rappresentata in modo "caldo" dal regista, che si limita a inquadrare alcuni supermercati saccheggiati, oppure, freddamente, degli atti di sciacallaggio notturno in case deserte. Direi, per concludere, che "Contagion" è un film da vedere proprio perchè eccentrico rispetto agli usuali paradigmi rappresentativi del genere apocalittico. Ma in ogni caso non entusiasma.  
Regia: Steven Soderbergh Sceneggiatura: Scott Burns Montaggio: Stephen Mirrione Musica: Cliff Martinez Cast: Gwynet Paltrow, Matt Damon, Jude Law, Kate Winslet, Laurence Fishburne, Josie Ho, Demetri Martin, Jennifer Ehle, Bryan Cranston Nazione: USA Produzione: Warner Bros. Pictures, Participant Media, Imagenation Abu Dhabi FZ Durata: 105 min.


giovedì 8 settembre 2011

Final Destination 5, di Steven Quale (2011)


Sam Lawton scopre di possedere la capacità di prevedere apocalittiche disgrazie che stanno per accadere a lui e al suo gruppo di amici, attraverso visioni che si impadroniscono di lui e gli rivelano il suo imminente e tragico destino. Grazie a una di queste visioni riesce a sfuggire miracolosamente al crollo di un ponte sospeso mentre lo sta attraversando su un autobus. Tuttavia la morte lo insegue, così come tutti coloro che riescono a sfuggirle...

"Final Destination 5", di Steven Quale, ha promosso in me riflessioni filosofiche sul Tempo e sull'impermanenza delle cose. Avete presente il "De brevitate vitae" di Seneca? Ecco, una cosa così. "Non multum temporis habemus, sed multum perdidimus", scrive ad esempio, il filosofo latino nel suo breve ma denso saggio. La saga di "Final Destination" la conoscevo fino a un certo punto (diciamo fino al terzo episodio?), così mi sono buttato su quest'ultimo capitolo in una modalità tra lo svogliato e l'incuriosito. Chi volesse un riassunto ragionato e molto ben fatto dei capitoli precedenti, può, anzi deve leggersi il nutrito post dell'amica Lucia qui. L'inizio non è male, e la lunga, anaforica sequenza del bus, che si ripete due volte nel sogno di Sam e nella realtà (filmica), lascia indubitabilmente sue tracce consistenti sulle nostre retine. Poi, nello srotolarsi dello script, la storia si sbrodola lungo le anse di un fiume metafisico che tuttavia non è in grado di sostenere e contenere nei suoi argini, un pò come se Quale volesse reggere la Tour Eiffel su una struttura lignea fatta di stuzzicadenti. Pura acrobazia concettuale iperbolico-adolescenziale, e nulla più. Sarebbe meglio dire "tardo-adolescenziale", ma dove comincia e dove finisce l'adolescenza, soprattutto oggigiorno? E' comunque evidentissimo che il film, come tutti gli altri della serie, parla a un pubblico di teenager. Ed è ovvio che sia così, perchè il tema del Tempo come consumazione e attesa della fine (della morte) inaugura le intense trasformazioni psicologiche dell'adolescente medesimo. Quando si è bambini il tempo è infatti infinito e la morte (la "Final Destination") non si pone come idea, come pensiero, o comunque è così lontana che non la si vede neppure. E' con la pubertà, cioè con una spinta radicale del Tempo Biologico, che il Tempo cronologico comincia, e con esso l'angoscia della brevità della vita. Questa nuova, tragica consapevolezza, a posteriori, è ben nota agli psicoanalisti, a quelli francofoni in particolare, che la chiamano apres-coup. Dicevamo che tutti i film di questa serie parlano ad un pubblico di adolescenti, gruppo assai sensibile al tema della morte, perchè comincia a vivere il trauma emotivo di un apres-coup che non aveva mai vissuto prima. A mio parere quest'ultimo capitolo parla la stessa lingua, ma lo fa in modo apparentemente più cupo, più "fiolosofico", giust'appunto. Ma è solo apparenza, ribadisco. Forse per questo il mio "controtransfert" di spettatore, sulle prime mi ha fatto tornare alla mente Seneca. Il problema esiziale di "Final Destination 5" è tuttavia che Quale non è Sant'Agostino, e nemmeno Seneca, e quindi   tutto il teen-age spirit si banalizza assai rapidamente, soprattutto a causa di dialoghi da serial televisivo per liceali. Quando ad esempio il gruppo dei ragazzi sopravvissuti incontra il "coroner" (un algido e poco convincente Tony Todd), sembra che stiano  discutendo a chi tocca tirare i dadi a Monopoli, piuttosto che della loro morte in quanto individui.  Forse il nostro regista avrebbe potuto più agevolmente rimanere su un orizzonte da teenager-movie in quanto tale, come accadeva nel primo film della serie, piuttosto che muovere sottotesti pretenziosi sottobanco, senza poi svilupparli con la serietà che tali sottotesti avrebbero meritato, e anzi riduncedoli in brandelli un'inquadratura dopo l'altra. Quale filosogeggia senza essere laureato in filosofia, e pretende di potenziare e dare nerbo a tale modus operandi banalotto, attraverso sequenze da film apocalittico (la prima sequenza del ponte crollato è bella, ma rimane una gran baracconata da puro intrattenimento a sè, del tutto disarticolata dal resto dello script). Vi sono poi cadute dal sapore completamente puritano-yankee, che toccano addirittura livelli di masochismo fantozziano, cioè di inconsapevolmente comico: la morte dell'amico Isaac sotto gli aghi della vecchia agopuntrice sadica è l'emblema di questo puritanesimo castratorio di ogni espressione di libera sessualità. Il decesso di Isaac avviene infatti dopo una sequenza in cui il ragazzotto grassottello cerca di sedurre la bella cinesina della reception del centro massaggi. Tale seduzione finisce con una morte atroce, che si conclude con la decapitazione-castrazione finale. E non occorre chiamare in causa Sigmund Freud per cogliere  questi grossolani svarioni ipo-simbolici dello script, davvero narrativamente tagliati a colpi d'ascia. Il film delude molto, in sintesi, dopo essere partito in quarta con una grande scena d'azione, di morte e di apocalisse che poteva anche fare ben sperare. Si decompone nel seguito come un cadavere esposto troppo a lungo al sole della canicola,  e certo non rallenta tale processo il pre-finale orchestrato secondo un forzatissimo e incongruo stilema thrilling. Tale stilema si appoggia per giunta su un inverosimile conflitto tra Sam e Peter, figura, quest'ultima, peraltro molto debole e incapace di sostenere una caratterizzazione che non aveva mai trovato forza nel corso di tutta la pellicola. Al termine della visione il film risulta quindi tronfio, pompato, pseudo-filosofico e superficiale da qualsiasi angolatura lo si guardi, al punto da farmene sconsigliare la visione a tutti, fuorchè a coloro che sono bruciati dal sacro fuoco del completismo.
Regia: Steven Quale Sceneggiatura: Eric Heisserer, Gary Dauberman Fotografia: Brian Pearson Montaggio: Eric A. Sears Musiche: Brian Tyler Cast: Nicholas D'Agosto, Emma Bell, Miles Fisher, Arlen Escarpeta, Ellen Wroe, Meghan Ory, David Koechner, Tony Todd Nazione: USA Produzione: New Line Cinema, Practical Pictures, Parallel Zide Durata: 92 min.

sabato 3 settembre 2011

Bereavement, di Stevan Mena (2010)



Minersville, Pennsylvania, un bambino di sei anni gioca su un'altalena nel giardino di casa sua mentre sua madre è in casa a prendere il tè con un'amica. Martin Bristoll, questo è il nome del bambino, viene prelevato dall'altalena e rapito da Graham Sutter, un bruto ex gaeleotto psicotico, che lo rinchiude in una vecchia fabbrica abbandonata, costringendolo per lunghi anni ad assistere a torture e vessazioni di ogni tipo che Graham infligge alle sue vittime (usualmente giovani donne rapite esse stesse e poi trascinate nella vecchia fabbrica sul suo scuro furgone). L'orrendo destino di Martin rimane sconosciuto al mondo per cinque anni, fino a quando la diciassettenne Allison Miller decide di andare a vivere dallo zio Jonathan che abita con moglie e figlia in una villetta non distante dalla casa di Sutter. Facendo jogging, Allison si accorgerà della presenza di un bambino spaventato all'interno della decrepita costruzione non lontana dalla casa degli zii. La curiosità di Allison alimenterà una spirale maligna dalle imprevedibili conseguenze...


C'è finalmente una buona, anzi ottima notizia proveniente dal mondo cinematografico perturbante statunitense. Notizia che sono lietissimo di comunicare e che consiste in un film: "Bereavement", di Stevan Mena, regista geniale e capace di eguagliare, se non addirittura di superare il Pascal Laugier di "Martyrs" (2008). Rispetto a questo parallelismo che vado dipingendo, e che proseguirà nel corso della presente recensione, sento già mormorii critici sullo sfondo, dei quali non mi curo, poichè ritengo questa pellicola davvero interessante, tanto quanto avevo ritenuto "Martyrs" una vera chiave di volta del genere horror contemporaneo. Stevan Mena costruisce un lugubre, claustrofobico, brutale incubo, contrappuntato da una perfetta colonna sonora dai toni funerei e insieme martellanti (dello stesso Mena), capace di impreziosire le sequenze più strong, che poi non sono poche. Il film non è facile da digerire, nemmeno per gli stomaci più corazzati, soprattutto per il fatto che Mena allestisce il dramma dell'uccisione dell'infanzia, o per dire meglio dell'anima di un bambino, costretto a fare da testimone muto delle efferratezze di un villain che proprio mai vorremmo incontrare sul nostro cammino. Un vero "alieno", cioè, lontano mille miglia da qualsiasi forma di umanità e affettività. Un alieno non solo nel senso della violenza nella cui gabbia è prigioniero e insieme secondino, ma anche nel senso strettamente psichiatrico di psicotico, cioè allucinato, delirante, serial killer tra l'organizzato e il disorganizzato, sempre al bordo di un crollo psicotico che tuttavia non attraversa mai. "Bereavement" è il prequel di "Malevolence" (2004), sempre di Mena, e ci vuole raccontare cosa accade a partire dal punto in cui Martin viene rapito, fino a cinque anni dopo, quando cioè il bambino ha circa undici anni. Già a partire da questo assunto, lo script non lascia speranze, e affligge lo spettatore fin dalle prime sequenze, attraverso la creazione di atmosfere plumbee, deprivate ("bereavement" significa appunto "privazione", "perdita", "annullamento"), polverose, sempre angolate da inquadrature che aggettano su angoli bui e legnosi, dietro cui giovani donne appese a ganci vengono accoltellate e dissanguate. In questi stessi angoli bui "abita" l'anima di Martin, ostaggio di Graham, a sua volta ostaggio dell'allucinazione parlante di un grande teschio di bufalo cornuto, appeso in una stanza della sua casa, e che ben presto diverrà anche il protagonista dei sogni di Martin (vedi foto sopra). Le affinità con "Martyrs" qui si affollano evocativamente: come la povera Lucie (Mylène Jampanoi), anche Martin è costretto ad un contatto con il Trauma, fatto di identificazioni sottili, infiltrative con il suo carnefice, che è poi un'effige perversa e/o psicotica del Potere Assoluto, annichilente. Nel caso di "Martyrs" il "potere della violenza" è perpetrato da un gruppo, è collettivo; si tratta però di un gruppo che si comporta come un individuo tetragono, totalitario.  In "Bereavement" il gruppo è costituito da un individuo, Graham, un "individuo" che è però, al suo interno, frammentato come un gruppo. La violenza di Graham e quella del gruppo di Mademoiselle, in "Martyrs", è tuttavia la medesima, e tende a mostrarci gli effetti devastanti del potere mediante la sovversione (al limite del rappresentabile, anche cinematografico) della relazione umana. La "marcia in più" che "Bereavement" possiede, rispetto a "Martyrs" (altri mormorii in fondo alla sala...), è data da più fattori convergenti: intanto si tratta di un film che pur partendo da una piattaforma low-budget (circa 2 milioni di dollari), riesce a trasmettere emozioni molto intense ed inquietanti, promuovendo riflessioni e associazioni profonde che film più costosi e hollywoodiani non riescono a fare; il secondo fattore risiede nel fatto che "Bereavement" sfugge alla seduzione di un manierismo e di una cura del particolare su cui "Martyrs" si siede come sugli allori, a tratti, pur mantenendo una sua precisa geometria architettonica; il terzo aspetto a vantaggio del film di Mena consiste in una sceneggiatura calibratissima in ogni suo punto, e che dà il meglio di sè nell'ambito di una perfetta congiunzione tra prefinale e finale, che lascia a bocca aperta, incrementando ritmicamente i colpi di scena e la suspense in modo intensissimo, fino al finale, che ci fa rimanere incollati alla poltrona, pensosi e tremebondi fin dopo lo scorrere dei titoli di coda, inutilmente cullati da una colonna sonora (sui titoli di coda, appunto) molto dolce e pacata. Tale colonna ci trasporta infine alla rapida sequenza finale, collegata temporalmente ai fatti di "Malevolence". Le performances degli attori sono tutte mirabili, in particolare quella di Alexandra Daddario (Allison), che con i suoi occhioni azzurri dovrà affrontare durissime prove, proprio come Anna di "Martyrs" (tutta la sequenza della cella frigorifera in cui Allison viene rinchiusa da Graham, è una delle migliori cose che abbia visto da molto tempo a questa parte in ambito horror). Brett Ryckaby, è tremendissimo nell'interpretare la cattiveria folle di Sutter, così come il piccolo Spencer List, sebbene non proferisca parola nel corso di tutta la pellicola, determina con la sua semplice presenza scenica smottamenti emotivi non da poco nello spettatore adulto, sebbene vaccinato, europeo e civilizzato. "Bereavement": film memorabile, anche nel senso che rimane impresso nella mente e nel cuore, dopo la sua visione, proprio per il suo terreo pessimismo, per l'assoluta, drammatica icasticità volta a rappresentare il luogo ("non-luogo" al limite del rappresentabile) della totale assenza di speranza. Da vedere, necessariamente, prioritariamente.

Regia: Stevan Mena Sceneggiatura: Stevan Mena Fotografia: Marco Coppetta Montaggio: Stevan Mena Musiche: Stevan Mena Cast: Michael Biehn, Alexandra Daddario, John Savage, Spencer List, Peyton List,  Nolan Gerald Funk, Brett Rickaby, Valentina de Angelis Nazione: USA Produzione: Aurilia Arts Productions, Crimson Films Durata: 103 min.