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lunedì 30 maggio 2011

The Ward, di John Carpenter (2010)


La giovane e bella Kristen viene ricoverata in una clinica psichiatrica dopo essere stata arrestata per aver incendiato una vecchia fattoria. Qui incontra diverse altre ragazze, tutte disturbate e con personalità molto diverse tra loro: Sarah, una chiacchierona che dice di sapere sempre tutto; Iris, una dolce e talentuosa artista che cerca di farla sentire benvenuta; Emily, una pazza scatenata, ma simpatica; e Zoey, che ha un comportamento infantile ed è attaccatissima al suo pupazzo a forma di coniglietto.
Kristen scopre anche che il fantasma di una misteriosa giovane donna abita i corridoi e le stanze di quel luogo, tormentandone gli ospiti ivi ricoverati.
Ma non è tutto: investigando sul passato del sinistro ospedale,  arriva a credere che nessun paziente lo abbia mai lasciato da vivo.

La domanda fondamentale che ci si pone dopo aver visto "The Ward", è perché un maestro del calibro di John Carpenter debba aver bisogno di buttare nel cesso la propria credibilità artistica, confezionando un'operatta insipida e debolissima come quest'ultimo suo film. E tutta l'energia critica che uno ha a disposizione nel momento in cui si dispone a scrivere una recensione in merito a "The Ward", se ne va completamente convergendo verso la ricerca di una possibile risposta a tale domanda, che tuttavia rimane (almeno per me) irrisolta. Infatti sarei tentato di terminare qui la "recensione", non fosse per il rispetto profondo che nutro nei confronti di chi mi legge, pubblico verso cui ritengo di avere l'obbligo etico di dar conto in modo accurato di ciò che vedo al cinema. Ben due menti sceneggiatrici (M. e S. Rasmussen) producono uno script che è un topolino partorito da una montagnetta: il disvelamento finale, in stile agnizione retorica, con presuntuose intenzioni socio-psichiatriche, è la ciliegina su una molle torta di panna, che fa tuttavia crollare la torta medesima e certo non la abbelisce esteticamente. Tutto il film si fonda infatti su questa agnitio, topos retorico conosciuto fin dai drammi latini, ed utilizzato per sorprendere il pubblico attraverso la "scoperta" della vera identità di un personaggio. Il problema è che alla fine di tutto il girato, questa modalità stilistica, che retrospettivamente dovrebbe arricchire e sorprendere, non dà affatto spessore alla storia, ma al contrario la banalizza e costringe in stereotipi, che qui non specifico per non cadere in spoiler. Il film descrive poi caratterizzazioni dei personaggi, che definire superficiali sarebbe un eufemismo, ma mi fermo qui rispetto a questo aspetto critico, solo perchè mi piange il cuore massacrare un grande vecchio come Carpenter. Sarebbe come massacrare un pezzo del mio Sè, della mia storia, e non vedo perchè farlo, perchè non mi ritengo così masochista. Regia, movimenti di macchina nei corridoi bui del "North Bend PsychiatricHospital", montaggio, tutto sembra tagliato sciaguratamente con la scure, un "tant al tòc", come si dice a Milano, cioè senza un briciolo di quella finezza perturbante che eravamo abituati a vedere in certe sequenze del Carpenter di trent'anni fa. Ma forse il problema sta proprio lì, cioè dovremmo abituarci all'idea che i "grandi maestri" non esistono più, e che dobbiamo elaborare il lutto relativo al fatto che un "The Thing" non tornerà, perché il tempo passa, e così come con la deriva dei continenti l'Africa non si congiungerà più all'Europa, allo stesso modo Carpenter, così come Craven o Raimi, per dire, non sono più quelli delle origini, e certamente in un futuro prossimo non torneranno più ad essere quelli che erano. E perchè dovrebbero, poi, mi domando? Mi rendo conto che questa consapevolezza è un colpo basso per il nostro immaginario filmico, ma è anche un antidoto alla cocente delusione che si prova nel guardare questi ultimi colpi in canna di registi che non hanno più niente da dire, proprio in un'epoca storica in cui invece MOLTO ci sarebbe da dire, attraverso il medium cinematografico perturbante. Cioè, per essere più chiaramente esemplificativo: come fa, voglio dire, uno che ha girato "Essi vivono" (1988), oppure "Il seme della follia" (1994), a cucinare un brodino liofilizzato Knorr come questo "The Ward"? Ma, come si vede,  torniamo così alla domanda iniziale, su cui le energie del critico tendono a convergere dopo la visione di una Amber Heard che vaga come un'ubriaca all'interno di uno degli ospedali psichiatrici più improbabili e inutili della storia del cinema horror. Su questa domanda senza risposte, su questo mistero glorioso mi fermo definitivamente rispetto a questa recensione, auspicando un dibattito su questo tema -se interessa- tra coloro che passano di qui e hanno la pazienza di leggermi.  
Regia: John Carpenter Sceneggiatura: Michael Rasmussen, Shawn Rasmussen Fotografia: Yaron Orbach Montaggio: Patrick McMahon Musica: John Carpenter, Mark Kilian Interpreti: Amber Heard, Danielle Panabaker, Mamie Gummer, Jared Harris, Mika Boorem, Lyndsy Fonseca, Laura Leigh, Sydney Sweeney, Dan Anderson, Susanna Burney, Sali Sayle Nazione: USA Produzione: FilmNation Entertainment, Premiere Picture, Echo Lake Productions Anno: 2010 Durata: 88.

sabato 28 maggio 2011

Seconds Apart, di Antonio Negret (2011)



Seth e Jonah sono due gemelli omozigoti che possiedono il pericoloso potere della telecinesi. Per i due isolati diciassettenni le cose iniziano ad andare fuori controllo quando alcuni loro compagni di liceo finiscono per morire in modo contorto e bizzarro. La polizia, e in particolare il detective Lampkin, comincia a sospettare di loro. Ma, la gelosia relativa ad una incipiente storia sentimentale di Jonah, inizia a dividerli e presto non possono più fidarsi l'uno dell'altro. Giungeranno infine ad una battaglia terribile, l'uno contro l'altro.


E' probabile che il regista di origine colombiana Antonio Negret ("Toward Darkness", 2007; "Mute Witness", 2011) sia rimasto affascinato da alcuni pezzi forti della cinematografia perturbante, incentrati sul tema della gemellarità distruttiva. Pensiamo ovviamente a "Dead Ringers" ("Inseparabili") di David Cronenberg (1988), ma anche a "Sisters" ( "Le due sorelle") di Brian De Palma (1973). E' anche possibile che Negret abbia letto il bel saggio giornalistico di Marjorie Wallace "Le gemelle che non parlavano" (1989), che racconta la deriva psicotica di due gemelle autistiche inglesi che col tempo diventeranno sempre più famose per via dei loro atti delinquenziali e soprattutto piromanici. "Seconds Apart" è chiaramente ispirato a illustri precedenti, ma vuole anche smarcarsene costruendo una sceneggiatura sempre in bilico tra puro thriller psicologico e horror soprannaturale. L'equilibrismo tra queste due vaste aree di confine del cinema perturbante è tuttavia molto difficile, e necessita in primis grande equilibrio tra tendenze ocnofile e filobatiche. Lo psicoanalista Michael Balint (1959) ha coniato questi due  termini, "ocnofilia" e "filobatismo", che indicano due tendenze umane opposte, una mirante ad aggrapparsi a ciò che è stabile e sicuro, l'altra orientata verso la ricerca di nuove ed ignote esperienze. Negret è un trapezista che non sa scegliere tra le due posizioni segnalate da Balint e quindi vola basso, troppo basso per raggiungere il tanto sperato salto di qualità rispetto al tema complesso della gemellarità e dei suoi intrinseci misteri. Jonah e Seth  (Edmund e Gary Entin) svolgono bene la loro parte di gemelli perversamente uniti da patologia sadico-voyeuristica (filmano le morti da loro stessi indotte telecineticamente nell'entourage delle loro "amicizie"); sono inquietanti nella loro freddezza, senza mai raggiungere peraltro la durezza maligna dei "bravi ragazzi" austriaci di un Haneke. Peccato, perchè se Negret avesse deciso di essere più "ocnofilo", cioè più saldamente ancorato al genere thriller-psicologico, allora il salto di qualità registico-cinematografico lo avrebbe fatto davvero. Ad aiutarlo ci sarebbe stato senz'altro un Yaron Levy alla direzione della fotografia, veramente ottima a illuminare particolari e oggetti molto sinistri nella loro quotidianità, quand'anche fossero un semplice tostapane di acciaio o due uova fritte. Anche il comparto sonoro orchestrato da Lior Rosner avrebbe fatto egregiamente la sua parte. Invece di "ocnofilizzarsi", al contrario Negret spinge l'acceleratore prima sullo psicologico, poi frena improvvisamente e lo rischiaccia a tavoletta sul soprannaturale-telecinetico. Entrambe le accelerate, in ambedue le aree estetiche considerate, se viste separatamente, producono anche momenti interessanti (come la sequenza gore della gamba sanguinante del direttore della scuola da cui i gemelli fanno fuoriuscire un sottile verme biancastro; oppure certi trucidi flash-back sul'infanzia dei due ragazzi). Tuttavia il continuo spostarsi da un genere all'altro depotenzia notevolmente il motore di tutta la macchina filmica, producendo infine una gestalt complessiva che sa di stantio, come la vecchia casa in cui la famigliola dei gemelli risiede. Il tema della gemellarità, così deliziosamente cronenbergiano perde quindi rapidamente smalto, anche perchè confusamente intrecciato alla storia personale e traumatica del detective Lapkin (un Orlando Jones ispirato e pieno di incubi, che però non fa altro che ricalcare il solito clichè del detective depresso e in lutto permanente). Il film, in sintesi, brilla a tratti di alcuni squarci di luce inquieta e morbosa (vedi le videoregistrazioni in bianco e nero degli esperimenti su Seth e Jonah da piccoli), che tuttavia non  sono sufficienti a regalarci quel senso di spaesamento che ci aspetteremmo di fronte al tema del "Doppio". "Seconds Apart" è una produzione After Dark che va vista perchè consente di portare avanti riflessioni ulteriori sul tema della gemellarità nella rappresentazione cinematografica perturbante, ma che non apporta nulla di nuovo a questo importante filone.


Regia: Antonio Negret  Sceneggiatura: George Richards  Fotografia: Yaron Levy Effetti Speciali: Neil Stockstill Make Up: Lauren Thomas Musica: Lior Rosner Cast: Orlando Jones, Edmund Entin, Gary Entin, Samantha Droke, Louis Herthum, Morgana Shaw, Monica Acosta, Kasey Emas, Gabe Begneaud, Kent Jude Bernard. Nazione: USA Produzione: After Dark Films Durata: 89 min.

sabato 21 maggio 2011

Troll Hunter (Trolljegeren), di André Øvredal (2010)



Un gruppo di studenti indaga su una serie di misteriose uccisioni di orsi da parte di presunti bracconieri. I ragazzi scopriranno molto presto che ci sono cose molto più pericolose di un orso, che si aggirano indisturbate tra i fiordi norvegesi. Cominciano a seguire un misterioso cacciatore, avendo appreso che egli è in realtà un cacciatore di troll.

E così anche la Norvegia è stata contagiata dal virus letale del mockumentary, che il regista André Øvredal decide di coniugare con la tradizione mitologica nordica, quasi attraverso una crasi retorico-filmica nella quale il nuovo-tecnologico e l'antico-antropologico sono fatti convergere appositamente nel tentativo di produrre un effetto originale e perturbante. Gli intenti della sceneggiatura sono assolutamente questi, ma i risultati sono ahimè altri, poichè il film non innova niente, non sintetizza niente, e anzi sembra una ribollita toscana di molte altre operazioni mockumentaristiche, cucinata però in salsa nordica. Ciò accade - inesorabilmente, potremmo dire - poichè il mondo simbolico e mitologico dei troll  e quello delle videocamere digitali a mano con funzionalità di visione notturna incorporata, sono universi in verità semplicemente lontanissimi e che è molto difficile avvicinare nonostante tutte le buone intenzioni di un  Øvredal qualsiasi. Gli effetti speciali e la CG possono assolvere appieno il loro dovere fin che si vuole a questo proposito, ma la capacità solo registico-visiva di trasmettere pathos e perturbazione emotiva, rianimando fantasmi atavici, è tutt'un'altra cosa, tutt'altro talento, che Øvredal non mostra di possedere. Ciò è ovvio, peraltro: dal momento in cui decidi di optare completamente per lo pseudo-documentaristico in stile "The Blair Witch Project" , ti precludi la possibilità di qualsiasi vibrazione poetica personale e devi stare sul realistico descrittivo. Al massimo puoi tentare di evocare ellitticamente il Perturbante, attraverso il non visto, il nascosto, cioè attraverso la sospensione ansiogena dell'azione (proprio ciò che accade in "The Blair Witch Project" e che lo ha reso giustamente famoso perchè innovativo proprio sul piano della costruzione narrativa della suspense). Il regista norvegese non segue affatto questa via e procede invece verso l'exploitation del troll, esibendolo quasi subito e a addirittura a tre teste nel bel mezzo di una radura boschiva. Il coro greco che si muove intorno ai giganteschi troll protagonisti, è tuttavia costituito da un branco di ragazzotti norvegesi qualsiasi, scelti attraverso un casting dozzinale. Otto Jespersen, il cacciatore di troll tenta vanamente di fornire spessore stilistico alla vicenda, che rimane tuttavia avvolta da un alone di inverosimiglianza a tratti ridicola, fin dalle prime sequenze. Niente viene detto, poi, di questi mitici esseri fiabeschi, che popolano le notti insonni dei bimbi nordici. In questo film i troll si appalesano davanti ai nostri occhi un pò come i mostri del film di animazione "Monster e Co." , della Pixar: grossi esseri pelosi e urlanti che camminano in modo sgangherato su e giù per la penisola scandinava senza un motivo ben chiaro. Nulla di più. I 90 minuti di pellicola rotolano via con ritmica anche sostenuta, ma mediata da un montaggio che troppo dichiaratamente tradisce il finto allestimento di una docu-fiction. Come avrete capito, consiglio "Troll Hunter" solo a quei completisti indefessi che amano gli sviluppi mockumentaristici del cinema Perturbante. A tutti gli altri suggerirei invece di starne tranquillamente alla larga.


Regia: André Øvredal Sceneggiatura: André Øvredal. Cast: Otto Jespersen, Hans Morten Hansen,TomasAlfLarsJohanna Mork, Knut Naerum, Robert Stoltenberg, Glen Erland Tosterud  
Nazione: Norvegia Produzione: Filmkameratene A/S, Film Fund FUZZ. Musica: Kvelertak 
Durata:  90 min.

domenica 15 maggio 2011

Con gli occhi dell'assassino, di Guillem Morales (2010)


Julia fa ritorno dalla sorella gemella Sarah, reduce da un intervento chirurgico che ha provato, senza successo, a salvarle la vista ormai compromessa da una malattia degenerativa agli occhi. Arrivata al paese verrà a sapere che la sorella, disperata per la sua imminente cecità, si è da poco tolta la vita, nell'indifferenza generale dei suoi vicini.
Poco convinta da questa storia Julia comincerà a indagare sulla morte della sorella, confrontandosi contemporaneamente con la stessa malattia che la sta progressivamente facendo diventare cieca...

Guillermo Del Toro sponsorizza questo "Los Ojos de Julia", confezionato da Guillem Morales, il quale più che un narratore di storie inquietanti, sembra un bradipo addormentato dietro alla macchina da presa. Perchè Del Toro sponsorizzi un bradipo non lo sappiamo, fatto sta che questo film iberico non scuote gli animi, ma anzi li addormenta, almeno fino a tre quarti abbondanti di pellicola. Ci aspettavamo cioè, che Del Toro facesse da padrino a qualcosa di un pò più consistente. Morales guarda al cinema di Argento, soprattutto nelle sue carrellate all'indietro, girate all'interno di luoghi chiusi, case buie, istituti per ciechi. In quel buio Morales (come Argento) colloca un improbabile killer che usa fotografare col flash le sue vittime, tra le quali sembra esserci anche la sorella gemella di Julia, Sarah. Detto questo, la sceneggiatura di Morales e Paulo si incarta e si inchioda all'interno di dinamiche coniugali e sororali decisamente poco pensate, elaborate, trasformate. Ad interpretare tali dinamiche tra marito e moglie sono due attori, Belen Rueda (Julia) e Lluis Homar (Isaac) condotti con mano tremula da un regista che si accontenta di muovere due burattini sulla scena. Isaac è il più burattino di tutti, anzi, assomiglia al papà di un famoso burattino, cioè Geppetto: capello bianco lungo, occhiali pseudo-intellettualoidi, barba rada. Geppetto e la fata-turchina-Julia balbettano dialoghi impossibili con l' autenticità e l'ispirazione di due cartelli stradali ai bordi di una statale assolata nel mese d'agosto. Ma è soprattutto la credibilità complessiva dell'intreccio a vacillare quasi subito, oltre che le performance dei due protagonisti principali: il rapporto gemellare tra Julia e Sarah è infatti paragonabile solo allo stile di una telenovela brasiliana anni '80, e viene il sospetto che Morales si sia appunto ispirato a quello che vedeva in tv sua mamma quando lui era piccolo (l'inconscio  gioca spesso brutti scherzi, ahimè). Sto parlando, naturalmente, dell'insistenza sul rapporto tra le povere sorelle gemelle affette da grave malattia oculistica degenerativa, la cui credibilità narrativa è appunto pari allo zero. Mai avevo visto una relazione gemellare trattata cinematograficamente in modo così superficiale, specialmente quando il lutto per la gemella morta scivola via quasi fosse morto il pesciolino rosso della protagonista, piuttosto che un parente con simili e ingombranti implicazioni affettive. Non molto altro c'è da dire di questo film, se non che il montaggio di Manel Vilaseca è molto poco equilibrato e amplifica così i difetti di una pellicola che non produce particolari effetti stranianti. Pathos e suspense non vedono nessuna luce e anzi rimangono pure loro contagiati dalla cecità degenerativa di cui soffrono le due sorelle. Fotografia e sonoro nulla aggiungono e nulla tolgono, nè tantomeno salvano la pellicola dal disastro. La malattia oculistica contagia poi, oltre che l'occhio del regista, anche quello dello spettatore, che alla fine desidera solo essere consolato dal buio della sala, dopo che i titoli di coda hanno cominciato a scorrere. Morales  guarda infine verso il soprannaturale in specie nella seconda parte del film, ma quello che fa risulta essere un semplice volo del tacchino. In sintesi io credo che Guillermo Del Toro abbia preso una cantonata notevole nello sponsorizzare attraverso il suo  nome illustre questo mediocrissimo "Con gli occhi dell'assassino". Cantonata che non mi spiego, ma che avrà probabilmente sue ragioni che i nostri occhi non riescono a vedere. 
Regia: Guillem Morales Sceneggiatura: Guillem Morales, Oriol Paulo Fotografia: Óscar Faura Montaggio: Joan Manel Vilaseca Musica: Fernando Velázquez Cast: Belen Rueda, Lluis Homar, Clara Segura, Hèctor Claramunt, Julia Gutiérrez Caba Nazione: Spagna Produzione:  Antena 3 Films, Mesfilms, Rodar y Rodar Cine e Television Anno: 2010 Durata: 112 min.

lunedì 9 maggio 2011

The Possession of David O'Reilly, di Andrew Cull, Steve Isles (2010)


Una giovane coppia viene improvvisamente quanto misteriosamente minacciata da una presenza soprannaturale, che si manifesta attraverso il loro amico David...

Fino a circa metà del minutaggio, la pellicola di Cull e Isles regala interessanti sprazzi di inquietudine molto british. Sembra quasi di leggere qualcuno dei primi romanzi di Mc Ewan, tipo "Cortesie per gli ospiti", per citarne uno piuttosto perturbante, oppure vengono in mente altri autori inglesi del nuovo corso modern gothic del tipo Laura Hird (vedi il suo interessante romanzo "Unghia", edito da Einaudi). Un Perturbante cioè molto psicologico, nel quale certo il "mostro" compare comunque quasi fin da subito, a mettere a soqquadro la tranquilla quotidianità di una giovane coppia, ma il cui ingresso è comunque sempre confuso tra il reale e l'allucinato. E il tutto è comunque, anche in questo film, sempre molto teatrale, chiuso cioè all'interno dell'appartamento di Alex e Kate, e da lì non si scappa, così come da tutta una sceneggiatura che coincide essenzialmente con la materia narrativa, anch'essa molto teatrale, dei fitti dialoghi (e delle pause di silenzio) dei tre protagonisti. La casa, "teatro" essa stessa delle visioni demoniache di David, è qui simbolo dell'interiorità claustrofobica del ragazzo: assistiamo infatti a tutto un susseguirsi di porte chiuse su altre porte chiuse che si aprono su apparizioni inquietanti. Le luci giallognole di Nic Lawson fanno da adeguato contrappunto a un andamento introspettivo e dialogato, rispetto al quale la regia sottolinea molto le soggettive, anche attraverso buone dissolvenze in nero, nel momento in cui David chiude gli occhi. Abbiamo detto che tutto procede bene fino a circa metà pellicola. E' proprio a partire da questo momento che lo script si sfrangia e diventa pura mucillagine insistendo a proporci il "mostro" in varie salse, ma sempre nel buio di sequenze che ci rimandano dritti a fratelli maggiori tipo Rec, Cloverfield, e simili suggestioni. Il film si colloca in un ambito di regia classica fino a un certo punto dello svolgimento, dopodiché abdica il regno del suo specifico immaginario ad altre declinazioni del sottogenere, e non ne capiamo il perchè. Tale operazione fa perdere la bussola ai due registi, che arrivano a un finale non molto convincente e sempre appiattito sugli stilemi consueti e desueti del mokumentary. Un peccato, poichè la prima buona mezz'ora faceva ben sperare, soprattutto per le atmosfere perturbanti molto ben costruite, a tratti quasi gotico-lovecraftiane. "The Possession of David O'Reilly": film deludente ma che più di altri può meritare una visione. 
Regia: Andrew Cull, Steve Isles Sceneggiatura: Andrew Cull Fotografia: Nic Lawson Musica: Steve Isles Cast: Giles Alderson, Francesca Fowler, Zoe Richards, Nicholas Shaw Nazione: Gran Bretagna Produzione: Authentic Films Anno: 2010 Durata: 87 min.


venerdì 6 maggio 2011

Delitti sulla Senna, di Tito Topin (2010)


Anno: 2006 Editore: Librairie Arthème Fayard, Paris, Tr. it. Giunti, Milano. 2010 Traduzione: Federica Trotta Pagine: 275  ISBN: 978-88-09-75027-2  Euro: 10,00


Proseguiamo nella nostra lenta e pacata indagine pre-estiva dei titoli thriller-noir d'oltralpe.  Dopo esserci dedicati al disastroso "Sezione Suicidi" di Antonine Varenne, buttato ben presto nella spazzatura, ecco che ci imbattiamo in questo "Delitti sulla Senna", di Tito Topin, scrittore franco-marocchino nato a Casablanca nel 1932 e insignito del prestigioso Prix Polar, proprio per questo romanzo. Ci troviamo qui di fronte (e finalmente) a ben altro spessore, rispetto a un Varenne, soprattutto rispetto a una modalità di scrittura davvero fresca e scoppiettante, inserita molto bene nell'attualità di una Parigi globale e globalizzata, e all'interno del cui tessuto romanzesco si staglia un luminoso personaggio, quello del commissario Benchimoun, detto Bentch, sbirro kosher che si aggira per le strade di Parigi a bordo di una vecchia Jaguar dai finestrini rotti. Bentch sta indagando su un serial killer che sconvolge la capitale uccidendo prostitute agganciate sulle rive della Senna. E' il primo romanzo di Topin che leggo, consigliatomi dal mio librario di fiducia pavese, Andrea, la cui sensibilità ed empatia relativamente ai gusti dei suoi clienti, sono semplicemente somme. Un primo romanzo che mi ha lasciato molto favorevolmente stupito, non tanto per l'intreccio, in alcuni punti lievemente sgarruppato per le mie papille, quanto per la scrittura in sè, peraltro magistralmente tradotta da una Federica Trotta che in alcuni momenti sembra guidata da ispirazione estatica. Ma vediamo alcuni esempi di questa scrittura:

"Il marito dell'ispettore Consuelo Sanchez era esposto dentro una bara imbottita di seta bianca sotto la luce cruda della stanza quando Inès venne a unirsi a sua sorella e ai membri della famiglia. Erano arrivati in gran parte da Valence, dove i genitori di Consuelo possedevano una calzoleria fin da quando si erano trasferiti in Francia dopo che un dittatore li aveva cacciati dal loro paese. Era l'unico laboratorio artigianale della città non gestito da armeni, altre vittime di quella stronzaggine umana che spesso si agghinda di uniformi bardate di ciondoli per meglio riunirsi fra stronzi" (pag.152).

Non so se siete d'accordo, ma qui io intravvedo in filigrana lo spirito e l'arte di Simenon, in quel tratteggio rapido e profondo, capace di aprirci squarci storici della famiglia e delle vicende generazionali di un personaggio. Per giunta, qui, secondario (Inès). Inoltre in queste poche righe Topin è in grado di evocare tutta una fantasmatizzazione storico-sociale relativa all'eccidio degli armeni, eccidio a lungo rimosso, mai sufficientemente citato e che in questo romanzo trova uno spazio culturale leggero, intermedio, eppure profondo, per ritornare alla luce. Ma vediamo insieme un'altra chicca tra le sequenze narrative che più mi hanno emotivamente toccato: 

"Lei si inebriava, le piaceva far festa, uscire, cenare al ristorante, adorava i posti alla moda dove s'incontrano persone famose, dove c'è luce, viavai, dove una conoscenza si ferma giusto il tempo di dire 'Come va?' e di darti un bacio, dove ritrovi gente che hai conosciuto durante una vacanza di una settimana a Creta e che si installa al tuo tavolo per prendere un caffè e raccontarti l'ultimo viaggio fatto a Santo Domingo. Dieci giorni a pensione completa, dovreste proprio andarci, la gente è adorabile ed è molto meno costoso delle Antille. Le piaceva il movimento, la testa che gira, i tipi con i capelli lunghi e possibilmente tinti a colori vivaci, gli artisti, gli avventurieri, tutto il contrario di quello che era lui" (pag.192). 

Ditemi voi se uno stile discorsivo simile non vi avvolge in un vento di vita caldo e fascinoso, che vi fa andare da Creta a Santo Domingo nel giro di tre righe, dispiegandosi in tre sole proposizioni delle quali la prima è lunga e densa di coordinate, capaci di darvi il senso di una vera e propria corsa della spirito di questa donna che fugge sempre via da ciò che è il suo uomo, per incontrare in un luogo che è sempre un altrove magico, la sua desiderata e impossibile felicità. Il libro è tutto così, dalla prima pagina all'ultima, sia che descriva le gesta orribili del serial killer nel momento in cui non sa decidersi se buttare il cadavere della prostituta di turno in un cassonetto, oppure nelle placide acque della Senna; sia che si immerga nella descrizione della famiglia ebrea di Bentch e dei suoi quadretti di vita esilaranti quanto vibranti di vitalità; sia che racconti l'appartamento di Violette con il cane morto sgozzato dall'assassino, insieme alla sua padrona, in camera da letto. Avrete dunque capito che consiglio senz'altro la lettura di questo libro. Un libro che va letto in quei giorni placidi in cui vi coglie il richiamo di una primavera interiore, come certe epifanie dell'essere che si mostrano a noi senza cercarle, magari poi sotto un albero in riva al fiume, in una tranquilla domenica di sole tiepido di fine aprile.

domenica 1 maggio 2011

Wake Wood, di David Keating (2011)


Patrick e Louise sono in lutto per la recente perdita della figlia Alice, uccisa a seguito di un'aggressione da parte di un cane selvaggio. I due si trasferiscono nella remota cittadina di Wake Wood, per ricominciare da capo la loro vita. Qui la coppia apprende di un rituale pagano che gli permetterebbe di passare ancora tre giorni con l’adorata Alice. Patrick e Louise trovano l’idea disturbante ma allo stesso tempo foriera di speranza. Alla fine accettano le condizioni di Arthur, il capo villaggio, ma la questione più importante resta in sospeso: cosa fare quando Alice tornerà indietro?

"Wake Wood" è una lieta sorpresa nel grigio e omologato panorama delle produzioni horror cinematografiche postmoderne che ci tocca di sorbirci da mane a sera. Intanto stiamo parlando di un rural-gothic horror dal budget ridotto all'osso, e tutto basato su atmosfere ed ellissi capaci tuttavia di trasmettere emozioni inquietanti, in modo tipicamente british, o per meglio dire irish. E tutti sappiamo ormai da tempo, quanto molti registi di genere delle isole britanniche, siano in grado di farci respirare un'angoscia multiformemente declinata, decantata, marinata e servita fredda, quant'altri mai. Personalmente sono anni che attendo invano un vero rural-gothic horror in stile italiano e, a parte qualche coraggioso Pastrello di turno, mi devo accontentare di uno Zampaglione che riprende ex soldati americani sul Tarvisio in mountain-bike, oppure dei soliti deliri senili di un Argento ormai fuori da ogni logica estetica. E pensare che il nostro entroterra provinciale agricolo fornirebbe chissà quante ispirazioni a un regista appena diplomato al Dams (basti riflettere un secondo sugli studi antropologici di Ernesto De Martino sui tarantolati pugliesi, oppure su certe tradizioni rurali dell'appennino bolognese). Ma torniamo al film di Keating (sarà meglio), che dipinge un'Irlanda viscerale, arcaica, chiusa nell'autismo del paesino di Wake Wood, comunità rurale che sembra rimasta ai tempi di un "Albero degli zoccoli" gaelico, ambiente comunitario in cui tutto si svolge intorno ai ritmi stagionali della natura, e che ha come base-simbolo la farm. Quivi i due genitori disperati si rifugiano, come in ritiro spirituale per cercare di annegare il dolore del lutto relativo alla figlia Alice, uccisa da un cane. Keating lavora una sceneggiatura nella quale l'occhio della macchina da presa sceglie di valorizzare la sfumatura quotidiana del macabro, il ritmo lento della vita strapaesana dei vari personaggi, e a tratti sembra di leggere un libro di John Ajvide Lindqvist, nel quale la cupa natura segue ed insegue come un'ombra paranoide i protagonisti.  Notevoli appaiono in tal senso le sequenze della veglia funebre del contadino morto schiacciato da un bue, mentre Patrick, che fa il veterinario, tenta di iniettare una dose di antinfiammatorio all'animale recalcitrante. Si tratta di sequenze che descrivono i dimessi interni di una povera casa contadina: vediamo tremolanti candele accese, il corpo del morto steso nel letto, e alcuni primissimi piani della mano della moglie che con una  forbice sta tagliando le unghie al cadavere; tutto è molto "semplice", molto umile e "antico", ma insieme anche assai funereo ed emotivamente straniante. Stesso discorso vale per le sequenze dell'esumazione di Alice sotto la pioggia fitta: occorre una certa inventiva perturbante per poter sceneggiare la situazione di due giovani genitori che disseppelliscono la figlia morta, perdinci. E' giustappunto questa inventiva messa in campo da Keating in modo visivamente toccante, a rappresentare il maggior pregio del film. Un film che inquieta molto senza neanche ricorrere ai soliti special effects hollywoodiani che hanno ormai saturato le nostre pupille. Ad esempio la inquadrature in campo medio e primo piano alternati, del rito nella corte della fattoria, con il cadavere appeso, possiedono una loro potenza perturbante determinata solo dai movimenti di macchina e da un sonoro musicale martellante e perfettamente sinistro nel descrivere la situazione. Il film, tuttavia, non è un capolavoro, e personalmente avrei lavorato di più la prima parte dello script, cioè la morte della bambina e il lutto successivo dei genitori (sebbene sembri chiaro che Keating si voglia tener lontano da suggestioni von trieriane in stile "Antichrist"). Inoltre i due attori protagonisti, Aiden Gillen e Eva Birthstle non mi sono parsi molto ispirati rispetto all'identificazione (peraltro molto difficile, mi rendo conto) con due genitori a cui accade la cosa peggiore al mondo. Aldilà di queste ultime  pecche narrative, che non gravano peraltro sull'architettura d'insieme del film, direi che "Wake Wood" merita certamente una visione poichè contribuisce sommamente a rinvigorire la declinazione rurale-antropologica del cinema perturbante anglosassone.  
Regia: David Keating Sceneggiatura: David Keating, Brendan McCarthy Cast: Aidan Gillen, Eva Birthistle, Timothy Spall Nazione: Gran Bretagna Produzione: Hammer Film Productions, Fantastic Films, Solid Entertainment Anno: 2008