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giovedì 30 dicembre 2010

Un raggio di intensa oscurità, di James S. Grotstein (2010)


Di James S. Grotstein Titolo originale: A Beam of Intense Darkness. Wilfred Bion’s Legacy to Psychoanalysis Karnak Book, London, UK Anno: 2007. Tr. It. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010. Traduzione: Isabella Negri. Pagg. 401. Euro: 37,00 ISBN:978-88-6030-316-5.


La lettura dell’opera di Bion risulta di solito molto perturbante, soprattutto per uno psicoanalista. E’ proprio per questo che bisogna apprezzare molto questo lavoro di James S. Grotstein, psicoanalista e psichiatra presso la David Geffen School of Medecine della University of California, nonché ex-paziente di Bion stesso, nel suo tentativo di produrre un compendio ragionato dell’opera del suo maestro. Tale tentativo ha lo scopo di re-interpretare il pensiero di Bion (che, ricordiamo, fu tra l’altro l’analista di Samuel Beckett) e i suoi multiformi concetti teorici, tutti sempre tesi a rendere più chiaro l’oggetto della conoscenza (e della cura) psicoanalitica, e cioè: la Verità Emotiva. Essendo perturbante leggere i testi di Bion, questo Perturbante riverbera ovviamente anche nel  testo di Grotstein, per esempio quando afferma che l’analisi è una forma di “’esorcismo’, tramite  il quale si trasferiscono i demoni dell’analizzando all’analista (o dal bambino alla madre)” (pag. 57). Oppure, sempre su questa linea, quando dice: “L’analista, come la madre fa per il bambino, assorbe il dolore del paziente, ‘diventando’ l’analizzando/bambino (nella fattispecie ‘diventando’ lo stato emotivo della mente del secondo) e permettendogli di diventare parte di sé” (pag. 57). Come si vede, Grotstein sta parlando di fenomeni di “contagio psichico” necessari perché un’analisi abbia luogo, fermi restando tutti gli altri prerequisiti “concreti” (e anti-fusionali) perché essa abbia luogo (il lettino, l’orario sempre uguale delle sedute, le associazioni libere, il pagamento dell’onorario e così via). Sul tema del contagio, del “diventare” lo stato mentale dell’altro, Grotstein picchia il chiodo nel corso di tutto il volume, reinventando a suo modo il concetto bioniano di “Trasformazione in O”, dove ‘O’ sta per “Verità assoluta”, o “Realtà Ultima” (stiamo parlando “Realtà” e “Verità” emotive, psichiche, attenzione), e che Grotstein preferisce rinominare, con sottile distinguo filosofico: “Verità assoluta sulla Realtà ultima”. Si tratta di una concezione che possiede un suo particolare sapore religioso, mistico, che soprattutto nell’ultimo Bion diventa Inconscio come Immanenza Assoluta che si incarna nel singolo, e che si estrinseca nel percorso analitico (queste posizioni divinizzanti dell’Inconscio sono state ostracizzate e sono tuttora criticate e negate dai suoi colleghi kleiniani della Società Britannica di Psicoanalisi). Pur avendo una struttura quasi “matematica”, cioè toccando tutti i temi nodali dell’opera di Bion, in ordine quasi cronologico di apparizione (dalla tecnica coi suoi pazienti ai gruppi, dalla funzione alfa al contenitore«contenuto, dalla Griglia alla Caesura della vita fetale, dalla riformulazione del pensiero kleiniano nella famosa triade L (love), H (hate), K (knowledge), al tema della “fede”), il libro di Grotstein è in realtà una lunga associazione libera dell’Autore, intrisa di passione, e tesa soprattutto a rendere vivamente qual è stata la sua esperienza di analisi con Bion, a partire dalla quale è partito un percorso di conoscenza e approfondimento del pensiero di Bion da parte dell’Autore stesso. Il pregio di questo libro sta esattamente qui: è una “Trasformazione” onirica del pensiero di Bion effettuata da un altro analista che ha avuto la non comune fortuna di aver fatto un’analisi con lui. Non è cioè una “spiegazione” della teoria bioniana. E’ il sogno di un sogno. Per un analista di oggi è per esempio molto interessante leggere alcune interpretazioni (inedite) di Bion date durante l’analisi di Grotstein, avvenuta negli Stati Uniti. E’ interessante perché si coglie come Bion avesse integrato a sua volta, ed elaborato, la teoria kleiniana in modo assolutamente originale, “trasformando oniricamente”, “sognando” anche lui tale teoria. Ecco per esempio un bellissimo (esteticamente, poeticamente) stralcio di seduta, tratta dal capitolo “Che genere di analista era Bion?”:  “A un certo punto incappai in una pubblicità del White House Hotel. In quel momento Bion aprì la porta del suo studio e mi invitò ad accomodarmi. Mentre mi alzavo, richiamai l’attenzione di Bion su quella pubblicità menzionando il meraviglioso pranzo che avevo fatto con mia moglie proprio al White House Hotel durante il nostro primo viaggio a Londra. Lì per lì Bion non fece commenti. Mi distesi sul lettino, feci due o tre associazioni, che ho ormai dimenticato da molto tempo, poi egli formulò la seguente interpretazione (per quanto riesca a rammentarla dopo tanti anni): ‘Si spera che, iniziando un’analisi qui con me, lei si pregusti una buona cena in questo White House Hotel, giacchè la ‘Casa Bianca’ è un modo per unirci: lei sta congiungendo la ‘Casa Bianca’ del mio paese d’origine e la ‘Casa Bianca’ del suo’ (pag. 37). E subito dopo Grotstein commenta: “(un’interpretazione kleiniana, certo, ma che interpretazione kleiniana!)”. Non si può che concordare con Grotstein rispetto a questa sua ultima ammirata esclamazione. Quella di Bion è infatti una immediata interpretazione del transfert, nel qui ed ora della relazione, ma che ridipinge in modo del tutto inedito l’immagine onirica della “Casa Bianca”, come oggetto transizionale che accomuna (che “accasa”) il paziente e l’analista sotto uno stesso tetto dove si mangia una “buona cena” analitica. E’ un’interpretazione che valorizza la relazione, l’Esser-ci dell’analista nella relazione. Cosa avrebbe detto la Klein non lo sappiamo, ma forse potremmo fantasticare a posteriori che la sua interpretazione avrebbe parlato solo del paziente, e non anche dell’analista e della “casa comune” dei due. Per concludere queste note, che non desiderano essere solo pedissequamente entusiastiche, possiamo dire che forse il “lato debole”, o che personalmente sento meno emotivamente vicino, di questo libro, è il tentativo un po’ troppo insistito di rendere ragione a tutti i costi, del complesso tema di ‘O’ (lo trovate negli ultimi capitoli del libro di Bion “Trasformazioni” -1965). Tema che sconfina (troppo, in modo “iperbolico”, come direbbe Bion stesso) nel filosofico kantiano e noumenico, e che occorre prendere con le pinze, soprattutto se ci si occupa quotidianamente di clinica psicoanalitica, per evitare di andar per farfalle, piuttosto che “stare coi piedi per terra” con il proprio ascolto, per dare un aiuto a chi ne ha bisogno. “Un raggio di intensa oscurità”: libro difficile, in alcuni punti discutibile sul piano teorico, ma lettura quasi obbligata se ci si prende la briga di attraversare le lande misteriose del Perturbante bioniano. 

lunedì 27 dicembre 2010

And Soon The Darkness, di Marcos Efron (2010)


Due giovani ragazze americane (Stephanie e Ellie) partono per  un viaggio in bicicletta lungo le strade di una remota parte dell'Argentina. Qui è scomparsa Camila, un’altra ragazza del luogo, rapida da non sappiamo chi. Quando anche Ellie scompare senza lasciare traccia, la superstite Stephanie si metterà alla sua disperata ricerca, incontrando sulla sua strada poliziotti poco rassicuranti e locali argentini per nulla ospitali.

Quando una squadra di ben tre sceneggiatori si mettono in pista per elaborare uno script, uno si aspetterebbe quantomeno una storia complessa, densa di svolte e colpi di scena, magari implausibili, magari confezionate in modo solamente esibizionistico e aventi il solo obiettivo di intrattenere l’occhio di chi guarda. Invece, purtroppo, non succede affatto così, e non succede per niente neppure in questo noioso “And Soon The Darkness”, che vorrei re-intitolare piuttosto, e per l’occasione: “And Soon the Sleep”. E’ probabile che Clemens,  Derwingson e Nation, i tre sceneggiatori, si siano fatti ispirare nel corso della scrittura dal noto romanzo “Desperation” (1996) di King,  pensando di riformularne in chiave più moderna l’idea di base. Tale ispirazione si ferma ad un puro atto parassitario verso un romanzo il cui livello non è neppure lontanamente paragonabile a questa floscia pellicola.  Rimane comunque il fatto incontrovertibile che il film di Marcos Efron (al suo primo lungometraggio) fa semplicemente venir sonno, almeno fino all’80esimo minuto di partita, e considerato che la “partita” dura 91 minuti…non so se mi spiego…. Efron prova a mantenere aperti gli occhi dello spettatore solo nei primi venti minuti, allorché ci piazza davanti i corpi ubertosi e silvani delle due belle, giovani e sode protagoniste, Amber Heard e Odette Yustam, davvero notevoli in costume, mentre prendono il sole accanto ad una remota cascata (vedasi il trailer più sotto, molto indicativo). Poi basta. Cala il sipario su tutto, e arrivano davvero le tenebre (Darkness) su tutto il resto del film, cioè tutto finisce nelle braccia di Morfeo, e noi con tutto il resto, naturalmente. La carenza totale di un qualche tipo di rimando immaginario filmico di minimo spessore, di tensione, di idee, vorrebbe essere sostituita dalle meravigliose locations naturalistiche che davvero belle sono, ma che potremmo anche visionare in un qualsiasi documentario della National Geographic Society. Bei tramonti fotografati e patinati, laghi desertici circondati da alberi secchi da cartolina di viaggio di nozze,  valli piene di sole, dove le due ragazze americane trascorrono tranquille le loro vacanze in bicicletta, alla ricerca di un aitante e virile argentino da portarsi a letto, perché, si sa, gli ormoni hanno ragioni che la ragione non conosce. E l’Argentina dei Videla? Dei Desaparecidos? Della feroce dittatura degli anni ’70? Che fine fa tutto ciò? Non si vede proprio, e quand’anche avessimo ipotizzato, nei primi cinque minuti di pellicola, che Efron desiderasse ambientare il suo film proprio in Argentina, anche per voler produrre un qualche embrione di riflessione storico sociale su quel paese, tale ipotesi si volatilizza molto rapidamente.  Inutile dire che lo spessore psicologico e le caratterizzazioni dei personaggi sono elementi sottili come carta velina che vola via e si perde in un giorno di pioggia. Si tratta di un film iper-patinato, vellutato come la pelle di pesca delle due giovani protagoniste, che il regista esibisce come in un banale videoclip pubblicitario, ma il cui valore estetico non va oltre tale velleità micro-estetica. Non è neanche un “film horror”. E’ la pubblicità di un’agenzia turistica che sponsorizza vacanze trekking sul Chaco, o sul fiume Bermejo. Non parlerò nemmeno dell’andamento narrativo del prefinale e del finale, che dire scontatissimi e banalissimi è come usare altrettanto scontati eufemismi. Speriamo soltanto che le “tenebre” si posino su questo stesso film, il cui titolo sembra essere la sua pietra tombale, facendolo al più presto  scivolare nell’oblio. Regia: Marcos Efron Sceneggiatura: Brian Clemens, Jennifer Derwingson , Terry Nation
Fotografia: Gabriel Beristain Montaggio: Todd E. Miller Cast: Odette Yustman, Amber Heard, Karl Urban, Adriana Barraza, Gia Mantegna, Michel Noher, Javier Luna, César Vianco, Daniel Figuereido, Hugo Miranda, Luis Sabatini Nazione: Argentina, USA, Francia Produzione: Abandon Pictures, Anchor Bay Entertainment, RedRum Films. Durata: 91 min. Anno: 2010

venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale

Buon Natale a tutti coloro che si prendono la briga di passare di qui a leggermi. Auguro a tutti di mangiar bene, di sentirsi in salute e di stare vicini a coloro cui vogliono bene. Anche di riposarsi il più possibile, nonchè di ritemprare lo spirito, come vorrei fare anch'io in questi giorni di vacanza. Da qui al 6 gennaio ne approfitterò, naturalmente, per scrivere alcune recensioni, tra cui preannuncio "And soon the darkness" di Marcos Efron, e, probabilmente "Let me in", di Matt Reeves. Poi leggerete anche recensioni libresche, tra cui "Un raggio d'intensa oscurità" di  J.S. Grotstein (saggio psicoanalitico molto difficile ma bello) e "Un caso archiviato", di A. Indridason (thriller islandese di un autore tra i miei più amati). A presto, dunque, e lasciate, almeno per un pò, che le caverne del Perturbante siano illuminate dalla stella di Betlemme.

domenica 19 dicembre 2010

L'uomo senza sonno (The Machinist), di Brad Anderson (2004)

Penso che la distribuzione italiana di questo bel film di Brad Anderson avrebbe dovuto lasciare il titolo originale non tradotto (“The Machinist”), poiché è decisamente più evocativo dell’assurdo titolo italiano. Infatti Trevor Reznik, il protagonista, non è un solo un uomo che soffre d’insonnia, ma anche e soprattutto un uomo combattuto, all’interno, da conflittualità e tensioni che vanno ben oltre un semplice disturbo del sonno. Ma si sa come vanno le cose in Italia, quindi non dobbiamo stupirci troppo. Ma torniamo al film, del 2004, che da tempo desideravo recensire, perché sto tenendo d’occhio questo regista, che ha già dato buona prova della sua arte in “Session 9” (2001), e che vedremo a gennaio con il nuovo e atteso “Vanishing on 7th Street” (vedi trailer, più sotto). Brad Andreson, con “The Machinist”, costruisce una storia che possiamo definire come “thriller psicologico”, sebbene sconfini in altri generi e sottogeneri, tra cui l’horror. A tale proposito ricordiamo le sinistre sequenze del frigorifero da cui cola sangue, vero oggetto quotidiano perturbante che accompagna il nostro occhio da circa metà pellicola fino alla fine. Altra memorabile serie di sequenze che ricordano il Tobe Hooper de “Il Tunnel dell’Orrore” (“The Funhouse”, 1980), sono quelle in cui Trevor e il piccolo Nicholas entrano nel tunnel della Route 66, alla fiera. Anderson sa mescolare semi-allucinosi e narrazione serrata in stile hitchcockiano con notevole maestria registica, visibile soprattutto in certi movimenti di macchina delicati e precisi, nonché nell’uso di campi lunghi molto intensi (come quelli nel parcheggio della fabbrica dove lavora Trevor). Anderson è inoltre capace di manipolare egregiamente i simboli, avvicinandosi a Lynch, ma senza le esagerazioni iperboliche e surreali del regista statunitense, cosa che va a tutto vantaggio di Anderson, che non perde mai la trebisonda e non sconfina mai nella visionarietà criptica lynchiana. Il modo in cui poi dirige uno splendido Christian Bale, davvero “combattuto”, afflitto, sempre pericolosamente in cammino sul crinale dell’autodistruzione, rende Anderson regista molto interessante e da seguire a mio avviso con attenzione. Anche l’inquadramento narrativo, che vede la storia inserita all’interno di una fabbrica meccanica, nella quale Trevor lavora, conferisce al film una inusuale e benvenuta originalità orientata alla descrizione sociologica della low-working-class statunitense contemporanea. Tutto ciò aldilà di una sceneggiatura non perfettamente lavorata, ma che sa mantenere comunque un suo decoro formale. Il clima generale di paranoia e angoscia che aleggia su tutto il film, è ben sottolineata dalla fotografia liquescente e desaturata di Xavi Giménez, e dalle musiche mai troppo invadenti  di Roche Banon. “The Machinist”: un film decisamente interessante e denso di spunti ben mescolati, da rivedere, in attesa del prossimo parto di Anderson, in uscita negli States il 7 gennaio 2011. Regia: Brad Anderson Sceneggiatura: Scott Kosar Fotografia: Xavi Giménez Montaggio: Luis de la Madrid Musica: Roque Baños Cast: Christian Bale, Jennifer Jason Leigh, Michael Ironside, John Sharian Nazione: Spagna Anno: 2004 Durata: 90 Produzione: Filmax Group, Castelao Producciones, Canal Plus + Espana.

venerdì 17 dicembre 2010

Horror Cartoon. Buone Feste con "Leone Cane Fifone"

Scritti da John R. Dilworth , Irving S. Bauer, Susan Kim e altri, nonchè diretti dallo stesso Dilworth, i cartoni animati della serie "Leone Cane Fifone" sono a mio avviso un ottimo esempio di cartoon perturbante, ma anche intelligente. Si tratta di storie "horror" che vedono coinvolto Leone, il cane di Marilù e Giustino, due anziani contadini che abitano in una sperdutissima fattoria americana. Ai due ne capitano ovviamente di tutti i colori, comprese invasioni aliene, aggressioni da parte di fantasmi perduti al confine tra l'aldiqua e l'aldila, e simili angoscianti piacevolezze.  Leone vigila su di loro e spesso ne va di mezzo la sua pellaccia. Sono stati i miei figli a farmi conoscere Leone, e anche per questo, sono loro molto grato. Propongo a tutti un episodio di assaggio, come pretesto per augurare a tutti BUONE FESTE! 

sabato 4 dicembre 2010

Heartless, di Philip Ridley (2009)


Definire “Heartless” un “film horror” è decisamente riduttivo, soprattutto perchè Philip Ridley è un artista a 360 gradi e non solo un regista. Infatti torna al genere cinematografico dopo ben dieci anni, durante i quali ha continuato a fare il pittore, l’autore di pieces teatrali, lo sceneggiatore, nonchè lo scrittore di romanzi e racconti per ragazzi. E’ necessario dunque considerare quest’ultima sua opera come una deviazione, seppur di un certo peso estetico, dai suoi standard performativi usuali. Certo, si era già impegnato nella dimensione cinematografica con “The Reflecting Skin” (1990), che gli aveva valso il leopardo d’argento al Festival di Locarno, e che lo aveva reso visibile alla critica e al pubblico. Girerà successivamente, nel 1995, “The Passion of Darkly Noon”, ambientato, come il precedente, nell’America povera e rurale del secolo scorso, descrivendone con poeticità considerevole i lati sinistri e grotteschi. Non possiamo considerare Ridley comunque e  “semplicemente” un regista, bensì un’autore che esprime la sua poetica in modo proteiforme, poliedrico, aperto. Fatta questa debita contestualizzazione curricolare del personaggio, “Heartless” si pone dunque come un’indagine della “working class”, non più statunitense, ma inglese, di oggi, osservata attraverso un utilizzo sapiente e insieme poetico del genere horror. Un “new-gothic-horror”, potremmo definirlo, che pesca largamente da stilemi barkeriani, nonché da alcune suggestioni che rimandano all’opera di China Mieville, soprattutto nel dipingere gli outskirts urbani londinesi, così freddi e privi di umanità,  mescolando tale location con la presenza di un mondo parallelo soprannaturale caratterizzato da tinte millenaristiche e catastrofiche. Una “catastrofe” che incombe ed emerge ad ogni fotogramma, nella totale indifferenza e insipienza dell’umanità circostante. L’atmosfera che si respira guardando questo film ha infatti un sapore esistenzialistico, sartriano: Jamie (Jim Sturgess) è un ragazzo dell’East End di Londra, che vive tutto il suo disagio giovanile nel sentirsi un diverso, un reietto della società, a causa di una grossa, devastante voglia rossastra che gli rovina completamente il viso e una parte del corpo. Preso in giro dai ragazzi del quartiere che lo sbeffeggiano dicendogli “elephant man”, Jamie è orfano di padre e vive con la madre in uno dei tanti anonimi appartamenti abitati da una classe operaia senza più identità né dignità. Il rapporto con la madre è tuttavia molto affettuoso, profondo, e Ridley  disegna questo rapporto con grande e commovente forza espressiva nelle prime sequenze del film. In una notte di vagabondaggi, in giro a fotografare sottopassi deserti e zone da archeologia industriale, Jamie si imbatte in una gang di balordi e assiste alla morte di un uomo bruciato vivo da strani esseri incappucciati le cui sembianze non sono certo umane. E’ a questo punto del film che Ridley ci apre le porte, con mano lieve ma ferma, a un mondo soprannaturale, demoniaco e parallelo, nel quale entreremo sempre più drammaticamente nel corso dell'opera, insieme al protagonista. In verità, a tratti, oltre che una amara riflessione esistenzialistica sul mondo contemporaneo, “Heartless” sembra essere la narrazione di un romanzo familiare adolescenziale, in particolare dopo che la morte della madre di Jamie, uccisa dalla gang di mostri incappucciati che terrorizza il quartiere, farà crollare ogni certezza del ragazzo rispetto al “senso del mondo” che lo circonda. Direi che questa mia personale interpretazione di uno sguardo privilegiato del film sul versante “adolescenziale”, possa trovare conferma nella sequenza in cui  Jamie sarà costretto da Papa B. ad usare il coltello del padre morto, per portare a termine il compito  implicito nel patto demoniaco siglato con lui. Il contratto diabolico consiste nell’eliminare la voglia che deturpa il viso di Jamie, realizzando il desiderio narcisistico della madre di avere un figlio bellissimo, a patto che Jamie si trasformi in brutale serial killer. Il coltello paterno sottolinea l’identificazione edipica persecutoria adolescenziale, e la pone in linea col processo di separazione traumatica dalle figure genitoriali (entrambi i genitori di Jamie sono morti). Jamie si trova lentamente circondato da “mostri”, non sappiamo bene se allucinati o “reali”, che segnalano l’impossibilità di elaborare il lutto per la perdita delle certezze genitoriali, familiari, e insieme di quelle sociali, lavorative, relative al poter progettare un proprio personale futuro. Come si vede già da questa proposta di analisi sottotestuale della pellicola, c’è molta profondità e finezza costruttiva in questo film, il che ci dà ancora una volta la prova di quanto il cinema europeo che si declina in chiave horror-perturbante, sia estremamente fecondo di suggestioni. Il cinema anglosassone in particolare, tanto quanto quello francese, entrambi così capaci di sintetizzare e rappresentare aspetti socio-politici attuali, insieme a storie dove l’inquietudine esistenziale dei protagonisti si sposa meravigliosamente con il “genere” horror. Certamente alcuni punti della sceneggiatura di “Heartless” sono deboli e poco lavorati (come il passaggio troppo rapido delle sequenze in cui la madre di Jamie viene uccisa), così come l’andamento narrativo risulta in alcuni tratti lento e  ricorsivo, ma, aldilà di queste perdonabili pecche, “Heartless” non ci esime dal tirare un ennesimo, salutare sospiro di sollievo rispetto al livello di creatività horror-filmica che serpeggia ancora con vivacità nel nostro caro Vecchio Continente. Un tale livello di sperimentazione artistica come quella portata avanti da un Ridley, ci permette di nutrire la speranza che il filone cinematografico perturbante europeo elabori forme sempre più interessanti di rappresentazione dell’inquetudine moderna. Per concludere due parole sul cast, egregiamente selezionato, sul quale spicca un giovane Jim Sturgess che sa vestire i panni della diversità e del malessere, attraverso modalità mai urlate o inutilmente istrioniche, ma con sobrietà e realismo (la tesissima e sanguinolenta sequenza del primo omicidio è a tale proposito molto eloquente) . Il personaggio femminile di Tia (Clémence Poésy) sa condensare una seduttività non stereotipata ma intensamente, gioiosamente ormonale, con una presenza psicologica e di dialogo decisamente apprezzabili. Anche i “cattivi di turno”, in particolare Papa B. (Joseph Mawle) e “Il Signore delle armi” (Eddie Marsan) tratteggiano caratteri innovativi mediante accenti recitativi ispirati e ispiratori di una sottile inquietudine. “Heartless”: molto, molto consigliato.     Regia: Philip Ridley Sceneggiatura: Philip Ridley Fotografia: Matt Gray Montaggio: Chris Gill, Paul Knight Musica: David Julyan Interpreti: Jim Sturgess, Clemence Poesy, Noel Clarke, Timothy Spall Nazione: Gran Bretagna Produzione: CrossDay Productions, May 13, Isle of Man Film, Cinema Two, Cinema NX, Matador Pictures, Regent Capital, Richard Raymond Films Distribuzione: Lionsgate (Europe) Anno: 2009 Durata: 110 min.


mercoledì 1 dicembre 2010

L' Arte Perturbante


Eccomi qui a presentarvi un nuovo “Label” di “Ulteriorità Precedente”. La nuova Categoria sarà dedicata a "L'Arte Perturbante", cioè a quelle modalità di espressione artistica capaci di trasmettere il brivido dell’enigma, dell’Inconscio, del non-pensato (o pensabile). Questa nuova categoria di post mi è stata ispirata da un mio recente viaggio-studio a Parigi, con seguente visita al Louvre, dove questa volta mi ha colpito molto il Trittico intitolato “L’Annunciazione” di Carlo Braccesco (1490-1500 ca.), che mostra, nella pala di destra Saint Etienne e Saint Ange La Carme, la cui testa è trafitta da un coltellaccio, e il cui cuore da altro simile arnese. Immagine decisamente perturbante, nella quale religiosità e masochismo mistico sono uniti in un loro perverso, imprescrutabile disegno, ma sotto forma artistica.