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mercoledì 17 novembre 2010

Lo specchio nel buio. Il Perturbante freudiano e il Cinema Horror (2)

Il Cinema Perturbante (come ci abitueremo a chiamarlo da ora in poi, anche attraverso le iniziali funzionali C.P., piuttosto che con la consueta, riduttiva dicitura "cinema horror"), assolve, come dicevamo, la sua funzione di rappresentazione culturale  del trauma, attraverso il suo peculiare lavoro di costruzione delle immagini,  cioè tramite un "processo di raffigurabilità".  Tale processo è descritto dallo stesso Freud  nel suo saggio sul'"Interpretazione dei sogni" (1900), laddove Freud afferma che il sogno si fonda su una regressione dell'Io  che avviene nel sonno ed implica un investimento di "tracce mnestiche ottiche" a discapito di altre tracce di memoria, come ad esempio quelle acustiche. Il sogno  è un "fatto privato", sebbene costruito secondo una "narrativa" che risponde a codici linguistici che possono anche non essere lontani da quelli di una vera e propria sceneggiatura;  il Cinema è invece un'area di intersezione culturale che definisce  un territorio misto tra l'inconscio del regista e quello dello spettatore: se infatti  consideriamo il Cinema come una serie di immagini materiali artisticamente combinate, allora tali immagini possono rappresentare un luogo d'incontro tra inconsci, poiché le immagini cinematografiche, come scrive Denis (1997) "...in quanto oggetti del mondo inerte organizzati dal mondo interiore di un uomo, essi hanno il potere di mettere in movimento tutta una parte del mondo interiore di un altro uomo". Proprio sulla linea  di pensiero di Denis possiamo dunque affermare che il Cinema Perturbante estrae evocativamente gli scheletri dai nostri armadi, cioè dai nostri Inconsci. Estrae questi scheletri, ma insieme li significa, cioè genera senso e "familiarita" intorno all'angoscia senza nome di cui gli scheletri stessi sono intrisi. Il Cinema Perturbante è dunque definibile come percezione perturbante, una “Percezione assistita” dalla Significazione, e questo è un punto molto importante del nostro discorso. Il lavoro della raffigurabilita, intrinseco al prodotto cinematografico cosiddetto horror, è infatti  un "lavoro" faticoso e angosciante, ma anche, in qualche modo "protettivo" rispetto al trauma che simultaneamente riproduce ed evoca, poiché, appunto tenta di  "rappresentarlo". Come scrive Francesco Conrotto, psicoanalista nonché, in Italia, tra i massimi epistemologi della psicoanalisi, “con il termine trauma si intende mancanza o rottura di senso. Pertanto trauma e rappresentazione sono inversi reciproci mentre la teoria traumatica è la rappresentazione della mancanza di rappresentazione” (Conrotto, 2000, pag. 34). Cerchiamo dunque di vedere meglio come il C.P. si declina ed esprime in quanto teoria traumatica.

La rappresentazione di una “mancanza di rappresentazione” (il trauma come “rottura di senso”) nel processo di raffigurabilita cinematografico, prende la sua forza dal fatto che l'immagine, fin dalle origini primigenie dell'Io, si pone come forma del confine. E' la percezione, ancora prima del linguaggio, la funzione dell'Io che si attiva fin da subito nell'incontro del Soggetto col mondo, con l'Altro-da-sè. La percezione e innanzitutto percezione del confine corporeo dell'Io, ed è propriamente questo confine che viene invaso da angosce che sono in primis angosce di frammentazione e dispersione dell'Io stesso. Stiamo cioè parlando in ultima analisi di angosce di morte dell'Io e del suo muoversi secondo linee  essenzialmente pulsionali. L'angoscia di morte è infatti, sempre, "angoscia di morte della pulsione" (Conrotto, 2000), cioè angoscia relativa al cessare della "spinta a esistere" del Soggetto stesso, spinta che secondo Freud (e anche secondo chi scrive)  è di natura essenzialmente "sessuale"', nel senso di "orientata al piacere" (questo è ciò che Freud intende per Istinto di Vita, Eros).

L'immagine, la percezione di essa, ricostruisce dunque un confine che l'Io interpreta come "pelle psichica", come frontiera familiare, e tutto ciò che definiamo "Perturbante", possiamo quindi cominciare a vederlo come tutto ciò che si muove in una direzione opposta, cioè verso un'abolizione di tale frontiera, verso il "burrone" dell'angoscia di morte. Il Cinema Perturbante sembra perciò condensare questo duplice movimento intrinseco alle parti più primitive dell'Io del soggetto: da una parte evoca la morte dell'Io mediante  una paventata-evocata  frantumazione dei suoi confini; dall'altra genera significazione, cioè un nuovo confine psichico, attraverso il lavoro della raffigurabilità, e per giunta nel punto di intersezione culturale tra due inconsci: quello dell'Io-spettatore e quello dell'Io-regista. Personalmente credo che il valore culturale,  "transizionale" (Winnicott, 1971) del C.P., consista appunto in questa sua potenzialità continuamente  decostruente, e insieme costruttiva, di un "confine", di uno spazio mentale-culturale. Il C.P. si muove sempre sul sentiero di confine della “rottura del senso”, e di questo confine fa il suo non-luogo d’elezione ed esplorazione. Esempio emblematico di  tale prerogativa del C.P. è il filone horror delle “case maledette”, nel quale il tema della distruzione del confine domestico dell’Io è stato indagato con notevole profondità da alcuni importanti registi. Sulle “case maledette” del C.P., e sulla loro importanza nella costruzione del processo di figurabilità cinematografica del trauma, ci soffermeremo infatti lungamente nel prossimo post (segue).

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