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domenica 28 novembre 2010

Skyline, di Greg e Colin Strause (2010)


Mi ricordo che negli anni ’70 uscì in Italia un film giapponese dal titolo “L’invasione degli astromostri” (1965, regia di Ishiro Honda). Lo andai a vedere con mio padre e mio fratello, entrambi grandi amanti del genere avventuroso e fantascientifico che in quel periodo andava per la maggiore. Avrò avuto circa 7-8 anni, ma quel film lo rammento ancora molto bene, con i due astronauti Fuji e Glenn che si spingono fino al misterioso pianeta X per negoziare con gli alieni il trasferimento di Godzilla sul pianeta extraterrestre, per combattere il terribile astro mostro King Ghidorah. I due astronauti terrestri scopriranno in seguito di essere stati truffati dagli alieni, che hanno invece l’unico scopo di distruggere l’umanità. Durante la visione di “Skyline” dei fratelli Strause (“Aliens vs Predators”, 2007), mi è tornato alla mente il vecchio film di Honda, datato, seppur intriso di un suo fascino d’antàn, anche nelle sue soluzioni pur patetiche ma comprensibili, considerato il periodo storico in cui è stato girato. Adesso invece abbiamo i meravigliosi effetti speciali e la CG più avanzata, quindi sulla base di queste nuove sicurezze tecnologiche, possiamo spingerci molto più in là dei primitivi godzilliani filmetti giapponesi di una volta. Esattamente questo ragionamento (tra lo sprezzante e il vanaglorioso) sembra aver attraversato le menti dei due fratelli Strause, sostenuti su questa linea dai due sceneggiatori, Cordes e O’Donnel, non accorgendosi, tutti quanti, che il loro film non si spinge affatto molto più lontano dal tessuto estetico di un film giapponese anni ’70. Questa mia piccola incursione recensoria nel mondo della sci-fi, un poco al di fuori dal cinema perturbante che di solito frequento, mi permette appunto di fare  alcune riflessioni circa il significato dell’effettistica e della CG, strumenti che sempre più spesso vengono (vanamente) utilizzati per sopperire a vuoti estetici tremendi. E’ proprio questo il caso di Skyline. Ma veniamo alla storia, dunque: dopo una notte di bagordi, nella città di Los Angeles, un gruppo di amici riuniti in un appartamento di lusso ai piani alti di un grattacielo residenziale, nota strane luci azzure scendere dal cielo. I misteriosi raggi svegliano tutta la città, attirando verso l’alto gli attoniti cittadini, come falene attirate dalla luce di un lampione. I ragazzi, tra cui il ventiquattrenne Jarrod (Eric Balfour) e la sua fidanzata incinta Elaine (Scottie Thompson), scopriranno ben presto che è cominciata una guerra per la sopravvivenza contro mostruosi alieni che hanno appena iniziato a invadere la Terra. Su questa base narrativa, il film appare diviso in tre parti: nella prima assistiamo alla resistenza passiva del gruppo, chiuso all’interno dell’appartamento, un po’ come i protagonisti di “The Mist” (2007), chiusi dentro il supermercato. Nella seconda parte, il gruppo si riorganizza, con l’arrivo di un nuovo personaggio, Oliver (David Zayas), dai connotati paterni, protettivi, per poi subito scomporsi, aprendosi verso l’esterno, con la fuga di Jarrod e Alaine sui tetti, nel disperato tentativo di raggiungere un elicottero dell’esercito. La terza parte è la più orrida e incomprensibile, nella quale Elaine viene risucchiata all’interno di un’astronave aliena e ingaggia una lotta ultimativa con un alieno che più improbabile non si può. Su questo duello tra donna incinta e mostro, si chiude in modo bizzarro e squilibratissimo, un film caratterizzato da un andamento della storia altalenante, inframmezzato da dialoghi noiosi e poco credibili, nel quale vediamo mostri che scimmiottano il gigantesco alieno di “Cloverfield” (2008), per poi diventare dei pronipoti di Godzilla o di King Kong, dai quali sembrerebbe abbian ereditato il piacere di scalare grattacieli. Che senso poi abbia la luce azzurra che scende dal cielo con l’entrata in scena degli “astromostri”, nonché con tutto il resto, solo Dio lo sa, ma alla fine della fiera direi che è un semplice espediente per esibire qualche effetto speciale in più, tanto per gradire. Difatti è l’elemento special effects che evidenzia maggiormente, per contrasto, la debolezza complessiva di un prodotto che parte da un budget già ridotto (circa 500.000 dollari), e ha tuttavia la pretesa di stupire e innovare, ma semplicemente rimasticando stereotipi fantascientifici consumati, “vendendoli” come  cosa nuova. Il risultato finale non è altro che una zuppa maleodorante nella quale gli ingredienti sono accostati e mischiati malissimo da uno chef che vuole rischiare a tutti i costi per risultare brillante. Dopo il niente affatto brillante “Aliens vs Predators”, i due chef Strause, avrebbero dovuto, al contrario, fermarsi ancora un po’ a riflettere sul loro precedente fallimento, nonché  studiarsi la storia del genere sci-fi. I due maramaldi, non contenti, sembra invece stiano già pensando a un sequel. “Skyline”: del tutto sconsigliato. REGIA: Greg Strause, Colin Strause SCENEGGIATURA: Joshua Cordes, Liam O'Donnell CAST: Eric Balfour, Scottie Thompson, David Zayas, Donald Faison, Brittany Daniel, Neil Hopkins, Crystal Reed, J. Paul Boehmer, Tanya Newbould, Pam Levin, Phet Mahathongdy, Tony Black FOTOGRAFIA: Michael Watson MONTAGGIO: Nicholas Wayman-Harris PRODUZIONE: Black Monday Film Services, Hydraulx, Relativity Media NAZIONE: USA  ANNO: 2010 DURATA: 92 Min FORMATO: Colore GENERE: Fantascienza, Thriller, Horror.

martedì 23 novembre 2010

Mirrors 2, di Victor Garcia (2010)

Pensato direttamente per il mercato dvd e blue-ray, questo “Mirrors 2” è di una inutilità sconcertante. Intanto si pone, con una notevole dose di malafede, come “sequel” del primo “Mirrors” di Alexandre Aja (2008), pur non essendolo affatto, facendo così un pessimo servizio al suo predecessore, per il semplice motivo che il film di Aja è solo un pretesto commerciale per vendere. Abbiamo qui il giovane Max, che dopo aver perso la ragazza in un tragico incidente da lui stesso causato,  comincia a lavorare come guardiano notturno in un grande magazzino di Mayflowers, di proprietà del padre. Dopo aver preso servizio, comincia ad essere tormentato da visioni spettrali che gli appaiono nei soliti specchi dislocati nel centro commerciale. Il tema trito e ritrito della “colpa traumatica e persecutoria” è narrato con sciattezza imbarazzante da un Victor Garcia (che si è occupato degli effetti speciali in “Hellboy” nel  2004, per poi dedicarsi a mini-serie in tv) il cui scopo evidente è solo quello di confezionare un bel dvd, cioè uno specchietto per le allodole che gli faccia guadagnare un po’ di denaro. A tale scopo la fotografia molto ben curata di Lorenzo Senatore, le musiche stridenti di  Frederik Wiedmann, e le scenografie molto fashion e trendy, diventano semplici espedienti diegetico-seduttivi per catturare l’occhio, a discapito di una coerenza estetica horror-oriented del tutto assente. Per esempio sono presenti alcune scene gore molto interessanti, nelle quali il sangue scorre, le teste sono abilmente mozzate (vedi la scena in cui Emmanuelle Vaugier è nella doccia), e il vetro degli specchi maledetti penetra nelle carni: tutta questa buona materia filmica è però subito raffreddata e resa inefficace, da un montaggio che corre come un cavallo imbizzarrito verso nuove seduzioni successive, nonché da una recitazione inesistente, da parte dei protagonisti. Max, interpretato da Nick Sthal, tenta di fare il tossico-in-psicoterapia, ma risulta solo inattendibile e dotato di uno spessore psicologico pari a quello di un paracarro. Sono anche ben costruite le sequenze in campo lungo degli esterni del grande magazzino, ma non si incastrano armonicamente con l’architettura visiva dell’insieme. Il film, per sovramercato, non spaventa affatto, ed è ben lontano dalle interessanti, morbose atmosfere del film di Aja. Si tratta quindi di una pellicola da vedere solo per amore di completismo filologico, oppure per la semplice curiosità di cogliere i movimenti antiestetici e puramente economici del mercato cinematografico statunitense.  Per il resto siamo di fronte a spazzatura da buttare in discarica al più presto. Regia: Victor Garcia Sceneggiatura: Matt Venne Fotografia: Lorenzo Senatore Montaggio: Robb Sullivan Musica: Frederik Wiedmann Cast: Nick Stahl, William Katt, Emmanuelle Vaugier, Lawrence Turner, Stephanie Honore, Christy Carlson Romano, Jon Michael Davis, Evan Jones, Wayne Pere, Lance E. Nichols, Ann McKenzie, Jennifer Sipes Nazione: USA Produzione: Anno: 2010.

venerdì 19 novembre 2010

Breve storia del verbo essere, di A. Moro ( Adelphi 2010)


"Breve storia del verbo essere" (2010), di Andrea Moro. Casa Editrice Adelphi. Collana: Biblioteca Scientifica. ISBN: 978-88-459-2493-4. Euro 26. "Breve storia del verbo essere" è un libro che mi ha entusiasmato, ed è per questo che ho deciso di proporne una recensione. Si tratta di un saggio di linguistica generale, piuttosto difficile soprattutto nella seconda parte, nella quale diventa assai denso di riferimenti linguistico-formali. Tuttavia, se si ha la pazienza di seguire il filo del ragionamento, pagina dopo pagina, si ha come l'impressione di essere guidati da un Virgilio all'interno delle strutture linguistiche di cui ci serviamo quotidianamente quanto inconsapevolmente. Andrea Moro poi lo conosco, seppure non ci siamo mai frequentati, poichè faceva il mio Liceo, due classi più avanti della mia. Lui è diventato un Linguista, mentre il sottoscritto uno Psicoanalista, ma entrambi, da versanti diversi, condividiamo un grande amore verso il Linguaggio. Moro, in questo libro, approfondisce il suo studio della Linguistica Formale nella elaborazione del suo maestro Noam Chomsky, occupandosi del verbo Essere, usualmente utilizzato come copula. Ma sottolinea anche le sottili anomalie di un verbo che si muove secondo linee strutturali diverse, a seconda di come è inserito in una architettura frasale, a differenza di tutti gli altri verbi. La prima parte del libro è interamente dedicata ad una interessantissima ricognizione storica di come la Linguistica abbia considerato il verbo Essere, a partire da Aristotele, per poi passare al Medioevo di Abelardo, alla prestigiosa Scuola di Port-Royal, al pensiero cartesiano, al novecento delle discussioni logico-matematiche di B. Russel, per poi arrivare al linguista danese Otto Jespersen, e concludere il tragitto fornendoci preziose informazioni circa gli sviluppi attuali della Linguistica, nati negli Stati Uniti, al MIT, sotto l'egida di Chomsky. Che cosa scopriamo, leggendo questo libro? Che la struttura del linguaggio che noi tutti utilizziamo in ogni momento della giornata, è infinitamente più complessa e organizzata di quanto possiamo immaginare. Il Linguaggio si comporta come materia biologica, oppure come un cristallo, un "frattale" (Mandelbrot, 1984) ricorsivo che si autogenera in forme quasi-perpetue, e che nasconde scarti e anomalie che nessuna "teoria unificata" è in grado di sussumere euristicamente in modo esaustivo. Questa grande complessità (meraviglia delle meraviglie!) è tuttavia appresa velocemente e quasi come fosse una "competenza biologicamente innata", dal bambino. Moro tenta in questo affascinante, difficile libro, di giungere proprio ad una "teoria unificata" che sciolga le anomalie del verbo essere, e sembra riuscirci, umilmente, da studioso, in particolare quando smonta alcuni assiomi di origine aristotelica, quale per esempio il "postulato del soggetto", analizzando il comportamento delle "frasi copulari inverse" (un esempio di "frase copulare inversa" è la seguente coppia di frasi simmetriche: "la causa della rivolta era una foto del muro" e "una foto del muro era la causa della rivolta": frasi simili, se non semanticamente identiche, ma nelle quali il verbo essere-copula dà luogo a due strutture differenti nelle rispettive versioni. Una di queste strutture è illogica e agrammaticale, l'altra no. E questo accade misteriosamente solo per il verbo essere, "mistero" che Moro prova e riesce a risolvere in questo libro). In ogni caso non mi dilungo oltre nel descrivere le meraviglie cui ci si imbatte durante la lettura di questa bellissima opera. Mi limito dunque a consigliarla vivamente, soprattutto perchè obbliga a pensare, caratteristica rara e preziosa in un'epoca come la nostra in cui la "cultura" mass-mediatica imperante tende a frammentare il Pensiero, piuttosto che a irrobustirlo.

mercoledì 17 novembre 2010

Hellweek, di Eddie Lengyel (2010)


Raramente mi era capitato di vedere un brutto pasticcio come questo “Hellweek” di Eddie Legyel, dj a tempo pieno a Cleveland, che di punto in bianco fonda una casa produttrice, la “Fright Teck Pictures” e impiega ben tre anni per sfornare davanti ai nostri occhi, con un budget da due lire, quello che potremmo definire il peggior film “horror” del novecento cinematografico mondiale. Lo script (dello stesso Lengyel e di April Needham) vuole parlarci di una urban legend più suburbana che cittadina, secondo la quale una gang di pazzi sadici e omicidi utilizza un magazzino abbandonato per rapire e  torturare i giovani rampolli del college locale. Ciò è accaduto in passato (sussurra la leggenda), ma accadrà anche oggi, quando alcuni studenti organizzeranno una sorta di rito iniziatico adolescenziale che consiste nel passare una settimana nel magazzino suddetto. E - finezza sopraffina – proprio durante la settimana di Halloween. Fin qui niente di nuovo sotto il sole, e tanto di cappello per il coraggio nel voler affrontare un mercato cinematografico che è un far west, ma qui non siamo neppure lontanamente vicini a un cinema "indie” che cerca di trasformare il deficit economico che lo caratterizza, in virtuosismo estetico o in idea innovativo-avanguardistica di qualunque genere. Qui siamo di fronte a una videoregistrazione amatoriale molto, molto noiosa, che per lunghe sequenze assomiglia maledettamente al “Grande Fratello”. Probabilmente Lengyel vuole inconsciamente farci vivere la noia da lui stesso provata mentre struscia i dischi sullo stereo, durante qualche festicciola di cheerleaders di Cleveland. La tragedia è che Lengyel riesce benissimo nel suo intento vendicativo. Dopo più di un’ora di pellicola vediamo infatti solo ragazzoni stravaccati su divani che dialogano sul nulla in un vuoto pneumatico, e ci domandiamo perché stiamo vedendo tutto questo. Perché ci stiano infliggendo questa cattiveria sotto forma di noia esistenziale. Le sequenze sono inoltre del tutto sgangherate, ripetitive, e non conducono a nessuno sviluppo narrativo anche minimamente coinvolgente. Tutto lo script è accartocciato sul prefinale e sul finale nel quale (finalmente) assistiamo al sequestro di alcuni studenti da parte di improbabilissimi aguzzini che indossano maschere da pagliaccio al solo scopo evidente di scimmiottare in modo patetico i tre famosi personaggi di “The Strangers”. Tra vuoti a perdere, pantomime inutili, dialoghi da latte alle ginocchia, e scimmiottamenti patetici, il film procede verso la sua deriva definitiva con le ultime sequenze che arrivano a un punto tale di presunzione da voler strizzare l’occhio al soprannaturale. Film senza alcuno spessore estetico, senza capo né coda, e che motiva una recensione solo per avvertire gli amanti del genere di starne a debita distanza. Regia: Eddie Lengyel Sceneggiatura: Eddie Lengyel, April Needham Fotografia: William A. Alexander Montaggio: Bobby Jones, Aaron Tomaselli Cast: Rob Jaeger, Karen Fox, Michael Reddy, Robyn Griggs, Stebe Thomlin, Breanne Racano Nazione: USA Produzione: Fright Teck Pictures Anno: 2010 Durata: 99

Shadow, di Federico Zampaglione (2010)


E’ questo, dunque, il “new horror” italiano? E’ meglio chiarire subito che non si tratta di una domanda banalizzante e tantomeno liquidatoria, intendiamoci. E’ invece una domanda molto seria che dobbiamo porre preliminarmente all’analisi del nuovo film di Federico Zampaglione, soprattutto per evitare il rischio di cadere in facili “tifoserie” nazionalistiche, sterili quanto dannose, e mantere invece una distanza emotiva necessaria per una equilibrata analisi filmica. “Shadow” è infatti film attesissimo dagli italici “fan dell’horror”, e proprio in un momento in cui la produzione cinematografica horror italiana tocca uno dei punti storicamente più bassi in fatto di idee e di realizzazioni esteticamente pregevoli delle stesse. L’ultimo film di Argento, “Giallo”, sembrava poi aver collocato sul suolo natìo la definitiva lapide di una debacle artistica che durava da decenni. Al solo confronto con la potenza creativa europea, al momento c’è solo da mettersi le mani nei capelli e piangere a dirotto. Ecco dunque che lo scatto d’orgoglio di Zampaglione, leader dei Tiromancino,  grande appassionato del non-genere a noi caro, reduce come esordiente dalla black-comedy “Nero bifamiliare”  (film fragilotto e dalla sceneggiatura piuttosto abborracciata), sembrava a tutti noi arrivare come una ventata d’aria fresca in questa italica valle di lacrime cinematografica. Ahinoi la “new wave” tanto attesa di Zampaglione si dimostra in verità una tranquilla e ininfluente brezza marina, come quei refoli leggermente salmastri che sentiamo arrivare sulle colline liguri, in certi giorni afosi d’agosto. Un venticello che ti dà un momentaneo sollievo, ma non è certo sufficiente a spazzar via la pesantezza del clima.   Non è tuttavia solo questo elemento “di contesto” che mi ha fatto inarcare il sopracciglio critico, dopo aver visionato “Shadow” in sala. Guardando al film come prodotto artistico in sé, troppe cose non mi hanno infatti convinto. Vediamole con attenzione, una a una, metodicamente. 1) Sceneggiatura: la base narrativa la conosciamo. David (Jake Muxworthy), giovane americano reduce dall’Iraq, parte per l’Europa per una lunga pausa in mountain-bike. In una remota località friulana, a due passi dal Tarvisio, si scontrerà con due cacciatori di frodo dai modi violenti, per difendere una ragazza, innescando un rocambolesco inseguimento nelle zone più oscure del bosco, dove aleggiano antiche leggende nonché la presenza di un terribile villain sadico e psicopatico. Fino a un certo punto Zampaglione e gli altri due sceneggiatori (D. Zampaglione e G. Gensini) costruiscono un perfetto ambiente d’elezione horror, attraverso un incastro di situazioni che vediamo avvitarsi e scattare in modo aritmico attraverso colpi di scena generatori di qualche brivido ben assestato sul cranio dello spettatore, in modo ruvido e spiccio. Lo script raggiunge un buon livello di tensione cumulativa fino al punto in cui i quattro protagonisti si perdono nel bosco nebbioso, sotto i grigi piloni del cavalcavia in disuso. A questo punto la scrittura diventa un bullone avvitato bene fino a quel momento, che poi però si svita lentamente e si disperde come i personaggi nel bosco. Si cerca di porre rimedio allo sfarinamento narrativo soprapponendo sequenze derivative, apparentemente “omaggi” ad altri film, quali probabilmente “Wrong Turn”, “The Descent” (la sequenza finale della miniera) e opere del vecchio Argento (l’ossessione per gli oggetti bizzarri nell’antro del killer). Tale sovrapposizione diventa un vero sovraffollamento subliminale, quasi “memetico” nel prefinale, facendo perdere del tutto coerenza, leggerezza ed evocatività ad uno script che sembrava promettere ben altro, nella prima parte. Ma il dramma avviene nel finale, vera e propria sconfessione di qualsiasi regola aurea che presiede alla costruzione di un horror. Ci accorgiamo cioè, tristemente, che Zampaglione voleva parlarci d’altro, e ha usato il nostro genere preferito per esporci il suo pensiero su altri temi (che non cito, per evitare spoiler). Ci sentiamo quindi defraudati, derubati come spettatori, e la domanda che ci sorge spontanea a fine proiezione è semplice: “Perché ci hai fatto questo?”. Zampaglione ci sveglia bruscamente da un sogno, mentre noi eravamo lì al cinema per sognare. Non si fa così. E’ disonesto. E per giunta nei titoli di coda ci ringrazi pure, insieme a Dario Argento, come “fan dell’horror”?: questa sì che è vera ipocrisia. 2) Regia e Montaggio: movimenti di macchina, inquadrature e brevi flash-back sulla guerra in Iraq, risentono dell’incoerenza di uno script che il regista non interpreta ma sembra inseguire pedissequamente, rimanendo appiattito su di esso, per non dire incollato. Il montaggio è frettoloso  e a tratti sembra tagliato con la scure, soprattutto nella seconda parte del film.  3) Fotografia: Marco Bassano ce la mette tutta a illuminare location suggestive nelle quali domina una Natura intrisa di segreti atavici. Non   possiamo quindi attribuire a lui la responsabilità di non riuscire a creare l’atmosfera e l’inquietudine che l’idea di base del film voleva portare avanti.   5) Cast: la scelta di Nuot Arquint è decisamente azzeccata, e forse l’aspetto più “forte” e “nuovo” del film di Zampaglione. Il problema è che al cospetto di un attore così espressivamente perturbante, così “espressionista”,  tutti gli altri, in primis Jake Muxworthy e Karina Testa, sembrano dei nani sulle spalle di un gigante. Decisamente il regista avrebbe dovuto effettuare un più profondo lavoro di caratterizzazione intorno a un personaggio come quello di Nuot, un vero Max Schreck (“Nosferatu”, 1922) dei nostri giorni, perché davvero avrebbe meritato molto di più. Ma forse il regista romano avrebbe dovuto scrivere un altro film, e non questo.   6) Sonoro:  al contrario rispetto al film d’esordio, non é Zampaglione ad occuparsi della colonna sonora. Le musiche sono state curate da The Alvarius, gruppo nato per questa occasione, composto da Francesco, fratello del cantautore, e Andrea Mossanese. Si tratta di un sound sperimentale e psichedelico, che crea rimandi al rock e ricorda le colonne sonore anni ‘70 e ‘80 del cinema italiano. Un omaggio ad Argento, quindi, soprattutto come contrappunto ad alcune sequenze claustrofobiche all’interno della casa delle torture. Ma, a furia di omaggi, anche la cura ossessiva delle musiche non fa altro che appesantire uno script che aveva invece bisogno di una libertà d’ispirazione registica che non riesce invece a trovare. 7) Effetti Speciali e Make Up: anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una nota dolente. Francamente ci aspettavamo qualche colpo d’acceleratore in più, perché, a parte la sequenza in cui Ottaviano Blitch viene abbrustolito come San Lorenzo sulla graticola, il resto della tecnica effettistica risulta misurata e parca, rispetto al contesto inquietante della “camera degli orrori” che ci viene mostrata. In conclusione, mi sembra del tutto legittimo affermare che “Shadow” sembra un soufflé che si è sgonfiato velocemente nel forno, per colpa di un cuoco completamente assorbito ad aggiungere tanti, troppi ingredienti, un po’ per omaggiare i maestri, un po’ per fare l’originale a tutti i costi, un po’ per la presunzione di voler resuscitare d’un sol colpo un “genere horror italiano” in così avanzato stato di decomposizione, dimenticandosi che questo genere di operazione culturale richiede invece tempo, studio, e lunga, sofferta perizia. “Shadow” arriva così a deludere i molti fan raccolti in trattoria per assaggiare il tanto, troppo sospirato soufflé. Dati questi presupposti, non ci voleva certo la sfera di cristallo per profetizzare un esito infausto di questo tipo.  Regia: Federico Zampaglione Sceneggiatura: Federico Zampaglione, Domenico Zampaglione, Giacomo Gensini Fotografia: Marco Bassano Montaggio: Eric Strand Interpreti: Jake Muxworthy , Karina Testa, Chris Coppola, Ottaviano Blitch, Emilio de Marchi, Nuot Arquint, Matt Patresi, Gianpiero Cognoli Nazione: Italia Produzione: Blu Cinematografica Anno: 2009 Durata: 80 min.

Harpoon, di Julius Kemp (2009)

Il regista islandese Jùlìus Kemp, al suo terzo film (preceduto dalle scarsamente significative commediole “Veggfodur”,1992, e “Blossi/810551”,1997), decide improvvisamente quanto improvvidamente di dedicarsi all’horror, e in questo “Harpoon” pensa di fare l’originale ambientando un “Texas Chainsaw Massacre” dei nostri giorni, su una rugginosa baleniera al largo di uno sperduto fiordo islandese. Il risultato estetico finale ci porta però agli antipodi delle buone intenzioni del regista, poiché non appare efficace né convincente l’idea di sequestrare una decina di sconosciuti turisti e di inscatolarli dentro una vecchia nave abitata da tre villain a loro volta per nulla convincenti. Paradossalmente sono proprio le suggestive locations nordiche e marinare a rendere fatuo il tentativo video-perturbante di Kemp e della sua crew. La messa in scena è infatti gelida e l’occhio fugge spesso al di fuori della storia, tendendo a perdersi nei colori insaturi della bella e a tratti poetica fotografia di Jean Noel Mustonen, ma così facendo l’occhio si distrae spesso e tende a lasciare al loro destino preconfezionato quei banalotti dei protagonisti. Il casting è appunto un'altra nota dolente di questo film: personaggi che più sciatti e insipidi non si potevano scegliere, a parte le tre signore tedesche, che naturalmente saranno le prime ad essere eliminate a colpi di piccone sul cranio. E’ piuttosto evidente che Jùlìus Kemp desidera a tutti i costi inventarsi “il primo slasher islandese”, ma inseguendo questo suo orgoglioso desiderio, finisce semplicemente con lo scimmiottare mimeticamente un qualsiasi (il più banale) slasher statunitense. Si vede lontano un miglio che il nostro regista è un USA-addicted, ma di quel cinema horror americano deteriore, stereotipato e insulso, e qui per sopramercato, precotto e affumicato come un’aringa, perché si tratta di uno slasher “spiegato agli islandesi”. Il tentativo di uno slasher, diremmo meglio, che peraltro non vuole riscaldare le locations iperboree con qualche effetto splatter significativo: ad esempio la morte del capitano del "Poseidon" è semplicemente ridicola, sia per la gratuità  della sequenza, sia per l’inconsistenza perturbativa che produce. Nel tessuto filmico di “Harpoon” tutto il narrato rimane piatto come uno stoccafisso appeso al sole pallido del grande nord, e anche le sequenze più tese (come quella di uno dei villan che va a fuoco), sono come immerse nel grasso di balena e scivolano via senza colpo ferire. Gli unici due elementi che ho trovato interessanti, sono la bella e atavica sonorità della lingua islandese (sottotitolata) e le immagini di repertorio iniziali sulla cattura delle balene. Un vero disastro ecologico-cinematografico quest’opera di Kemp, coronato da una improbabile Natura vendicatrice nel finale, e che non nasconde inoltre una certa malafede nel proporci come novità la fredda brutta copia di un qualcosa di visto e stravisto provenire dagli States. “Harpoon”: film per soli completisti del genere slasher, altrimenti da evitare con cura.  Regia: Julius Kemp Sceneggiatura: Sigurjón B. Sigurdsson Fotografia: Jean Noel Mustonen Montaggio: Sigurbjorg Jonsdottir Musica: Hilmar Örn Hilmarsson Cast: Gunnar Hansen, Pihla Viitala, Nae, Terence Anderson, Miranda Hennessy, Aymen Hamdouchi, Carlos Takeshi, Miwa Yanagizawa, Halldóra Geirharðsdóttir, Guðlaug Ólafsdóttir, Snorri Engilbertsson, Ragnhildur Steinunn Jónsdóttir Nazione: Islanda Produzione: Icelandic Film Company, Kisi, Film & Music Entertainment Solar Films, Anno: 2009 Durata: 90

Camp Hell, di G. VanBuskirk (2010)


Va dato merito a George VanBuskirk, giovane esordiente regista di Brooklyn, di gettare con questo suo “Camp Hell” (o "Camp Hope", come è stato alternativamente distribuito), uno sguardo acuto e profondo sul mondo dell’adolescenza, già a partire da un ottimo e fresco casting composto da  giovani attori sconosciuti e ben selezionati. Lontano mille miglia dalle stereotipie adolescenziali cui il cinema hollywoodiano ci ha abituato ormai da tempo immemore, VanBuskirk descrive attraverso tonalità drammatiche i turbamenti di un “giovane Törless” proveniente da una famiglia cattolica iperbigotta, che lo costringe a frequentare il solito ritiro spirituale annuale presso “Camp Hope”, comunità religiosa guidata da un prete molto carismatico quanto dannoso per le fragili menti dei ragazzi ivi convenuti. Thomas è turbato da pensieri peccaminosi, cioè dall’idea della masturbazione, dalla sessualità il cui richiamo comincia a farsi prepotentemente sentire, nonché dalle seduttive movenze di Melissa (Valentina de Angelis), una ragazza conosciuta a Camp Hope, con cui avrà la sua prima esperienza erotica. Il tutto è raccontato da Van Buskirk con una sguardo ispirato da grande tenerezza. Sguardo che si fa poetico proprio nelle scene d’amore tra Thomas e Melissa, raccontate con una dolcezza che è raro vedere di questi tempi, e soprattutto nel “cinema adolescente” (il confronto con i vari Twilight è semplicemente stridente e fa diventare i soliti vampiri della Meyers, degli stolidi pezzi di legno: da ardere, naturalmente). E’ molto interessante in questo film anche l’uso narrativo dell’ambiguità nel presentare una storia che già nel titolo introduce un enigmatico paradosso, dal momento che la comunità cattolica si chiama “Camp Hope”, mentre il film s’intitola “Camp Hell”. La dialettica linguistico-significante tra Inferno e Speranza rende bene, già di per sé, la tensione interna delle varie e polimorfe anime dell’adolescente, soprattutto (e saggiamente) sul versante dell’introspezione psicologica, impreziosita da dialoghi e interazioni tra personaggi assai ben costruiti, poiché fotografa con precisione l’adolescenza intesa come trauma e come ritraumatizzazione della relazione. Il ruolo dei genitori, narcisisti in quanto interessati al loro ideale sociale e religioso, piuttosto che al benessere psicologico dei propri figli, è a questo proposito centrato e psicologicamente ben calibrato, anche all’interno di una storia che sottolinea la separazione dalla famiglia come “rito di passaggio” (ci troviamo infatti in un bosco isolato, metafora dell’essere abbandonati come Pollicino coi propri fratelli, e messi a contatto con la foresta pulsionale e aggressiva del proprio inconscio, senza più l’alone protettivo di mamma e papà). Il viraggio “horror-demoniaco” non è poi troppo calcato, ma ugualmente produce un effetto di straniamento inquietante, visto che non è mai del tutto chiaro e “spiegato”, per fortuna, cosa accade sotto i nostri occhi: si tratta di allucinazioni di Thomas? Oppure il Demonio è entrato davvero a Camp Hope e utilizza la fisiologica angoscia adolescenziale per manifestarsi? Qualunque cosa stia accadendo, il messaggio che VanBuskirk desidera trasmetterci è quello di una ferma denuncia del devastante effetto traumatico dell’ideologia religiosa sulla mente delle giovani generazioni, non importa se musulmane, cattoliche, o di altra confessione. E’ l’anti-naturalità dell’indottrinamento e della Fede a distruggere la coscienza, che invece segue sue vie naturali, vitali, nelle quali l’inconscio, il desiderio e la sessualità giocano un ruolo fondamentale che non si può negare o manipolare, pena la morte psichica di chi si trova in un momento fisiologico di grande vulnerabilità. E questo vale per il giovane kamikaze indottrinato da Al Qaeda, come per il giovane cristiano della provincia americana. Elemento ulteriormente interessante ed esteticamente rilevante di questo film è anche il fatto che è capace di evocare tutta questa linea di associazioni, nonché di far vibrare una certa inquietudine (si pensi alla sequenza delle tre colombe insanguinate che il prete trova sotto il suo cuscino, oppure all’uso di un sonoro che si avvale di scricchiolii sinistri e altri suoni perturbanti) nonostante un budget ridottissimo e un cast di attori non professionisti, ma condotti da una mano registica ferma e sapiente. Un film “minore”, certamente, ma che vale la visione. Regia: George VanBuskirk Sceneggiatura: George VanBuskirk Fotografia: Michael McDonough Montaggio: Misako Shimizu Musica: Gary DeMicheleCast: Jesse Eisenberg, Dana Delany, Andrew McCarthy, Spencer Treat Clark, Connor Paolo, Bruce Davison, James McCaffrey, Valentina de Angelis, Drew Powell, Will Denton, Christopher Denham, Ato Essandoh Nazione: USA Produzione: Holedigger Films, New Films Cinema Anno: 2010 Durata: 91

After.Life, di A. Wojtovicz-Vosloo (2009)

Ho visionato “After.Life” della giovane regista polacca Agnieszka Wojtovicz-Vosloo tamburellando nervosamente i polpastrelli della mano destra sul bracciolo della poltrona, per tutto il tempo della visione. Non è un buon segno, questo, quando guardo un film cosiddetto “horror”, poiché tale reazione neuro-vegetativa automatica non fa che segnalarmi che mi sto annoiando. Nel film si narra di una giovane donna, creduta da tutti morta in un violento incidente stradale, che in realtà si trova sospesa tra la vita e la morte, in un limbo fantasmatico cui può avere accesso un austero funzionario delle pompe funebri (Liam Neeson) che possiede, non si sa perché, lo “shining” di “parlare” con le anime perdute e più riottose al trapasso. Vediamo quindi Anna (Christina Ricci) ancora lucida, che dovrà lottare strenuamente per non essere sepolta viva. Si tratta di una “morta” che si comporta come una donna viva ma come se fosse sequestrata da un sadico serial-killer che si accanisce su di lei con tanto di bisturi e arnesi similari per “prepararla” al suo ingresso nella bara così come al mondo dell’aldilà. La storia è raccontata in modo dilungato e noioso, con la complicità di un montaggio alternato estremamente discontinuo, che tenta di far convergere la lotta per la vita di Anna e il senso di colpa del fidanzato Paul (Justin Long, un attore che meno credibile in questa sua parte non si poteva davvero scovare). L’atmosfera generale del film è poi rappresentata dalla legnosità assoluta del volto di un Liam Neeson spentissimo e monocorde, che si rivolge all’anima-nomade di Anna come potrebbe fare un qualsiasi assicuratore di provincia, venuto a riscuotere la polizza. Non sappiamo bene cosa abbia spinto questa semi-sconosciuta regista di Varsavia alla sua prima prova in lungometraggio, a confezionarci questo crisantemo finto, di plastica e strass. Forse appunto il suo interesse per il bricolage floreale gothic-style risalente a quando faceva le scuole medie. Null’altro sembra infatti ispirarla, soprattutto se pensiamo al fatto che la sceneggiatura è tutta sua, e quindi se ne assume, ahilei, la responsabilità in toto. Un film più vuoto e superficiale nel trattare il fondamentale tema horror del confine tra vita e morte, non si era mai visto, un film la cui supponenza è  irritante, visto che non si pone lontanamente neppure l’obiettivo di rielaborare qualche mito, oppure solo qualche stereotipo del genere “ghost-story”, oppure anche del genere "serial killer". “After.Life” vuole volare come Icaro al di sopra di tutto, supponendo altezzosamente di dire qualcosa di nuovo, che in verità non dice mai: vola come Icaro, e poi si perde nel cielo come un palloncino da fiera. Non parliamo del ruolo di Jack (Chandler Canterbury), il bambino, studente di Anna, che a un certo punto dello script scopre confusamente di possedere lo stesso “shining” di Neeson. Il dialogo tra i due, nel quale Neeson parla a Jack del potere di Gesù di parlare a Lazzaro, fa pensare che la cultura cattolico-polacca della  Wojtovicz-Vosloo, qui si faccia sentire, ma il riferimento cristologico-wojtyliano non fa che ammorbare ulteriormente un’acqua già grigia e stagnante di per se stessa. Il corpo di Christina Ricci non ha alcun effetto sia pur distraente se non seduttivo, per cui ci si possa almeno consolare con quello. Il finale è sulla stessa linea di scontata banalità cui il film ci aveva fin lì abituato. “After.Life”: da evitare con cura.  Regia: Agnieszka Wojtovicz-Vosloo Sceneggiatura: Agnieszka Wojtovicz-Vosloo Fotografia: John Mathieson Montaggio: Niven Howie Musica: Paul Haslinger Cast: Liam Neeson, Christina Ricci, Justin Long, Josh Charles, Chandler Canterbury, Celia Weston, Shuler Hensley Nazione: USA Produzione: Llju Productions, Harbor Light Entertainment, Plum Pictures Anno: 2009 Durata: 104.

Sull'evanescenza dell'Essere e del Pensiero nel tempo che viviamo (4)

"La morte ha inizio da quel ritaglio dell'infinita indeterminazione del senso che

chiamiamo 'Identità'".

G. Marramao (1991)


Siamo ormai diventati dei vagabondi, dei nomadi dell'Essere. Non abitiamo più il cuore di noi stessi, ma abbiamo delegato alla massa, all'informale, all'indifferenziato, tutto ciò che è senso-del-Soggetto: differenza, scarto, individuazione che si sottrae ad ogni incasellamento precostituito e rassicurante, sono diventate tutte parole d'altri tempi. Parole vuote. Ora è l'Immagine che comanda. L'Immagine è al potere e da essa siamo comandati. Siamo in un'epoca in cui è la "chiacchiera insensata" (ora "l'immagine insensata"), rapida, inutile, ad essere significante. E' questo il messaggio dei 'mass-media': non sono più le informazioni ad essere significative, ma il ritmo, "la cadenza nevrotica, avida, commerciale, seduttrice che creano. Secondo lo spirito del tempo il messaggio è lo 'zapping'", come scrive acutamente David Grossman. Una seduzione che ha come mira l'abolizione dell'Essere-Soggetto inteso come pensiero autoriflettente e rimemorante, trasformandolo per esaustione graduale in massa indistinta. In questa massa, poi il Soggetto, consumatore anonimo tra i molti di un qualsiasi centro commerciale, si confonde e consegna parti di Sè al Pifferaio Magico di turno (anche Beppe Grillo non si sottrae a questo destino, ne sia consapevole o meno). La massa è in effetti rassicurante perchè le si può delegare ansie, fobie, angosce, e illusoriamente trarne il 'beneficio' di una totale de-responsabilizzazione. Fondersi nella massa ha come effetto diretto il non-esserci in prima persona di fronte a se stessi e agli altri, con le proprie fragilità e paure. Una vera e propria 'prostituzione morale' del Sè, come ancora Grossman definisce questa trasformazione antropologica epocale in cui noi tutti siamo purtroppo inesorabilmente coinvolti.


Bibliografia.

Borutti, S. L'inconscio esiste? Tu l'hai incontrato? Intervista a cura di D. Scotto di Fasano, in PSICHE, 1, 2007 - Pagg. 129-134.

Freud, S. (1921) Psicologia delle masse e analisi dell'Io - OSF, Boringhieri, Torino.

Grossman, D. Discorso di apertura del Festival della Letteratura di Berlino, La Repubblica, 5 settembre, 2007.

Heidegger, M. Essere e Tempo, tr. it. Milano, Longanesi, 1976.

Sull'evanescenza dell'Essere e del Pensiero nel tempo che viviamo (3)


Ciò che voglio significare qui è che stiamo vivendo una profonda, radicale trasformazione antropologica dell’Essere Umano, alla quale non siamo ancora pienamente preparati e di cui, soprattutto, non abbiamo piena consapevolezza. La nostra vita si sta infatti sempre più trasformando in un contenitore di sterili oggetti inanimati, di “cose”. Cose da fare, cosa da consumare, cellulari sempre accesi, connessioni a internet sempre attivate, televisori che srotolano in continuazioni immagini da vedere. Ogni immagine uguale a un’altra. Non c’è più silenzio, pausa, attesa, differimento del desiderio, ricordo, memoria, pensiero, là dove il desiderio e la memoria (il Tempo) e la loro  assenza sarebbero la marca distintiva del Soggetto Umano, in quanto animale culturale. Il senso dell’Essere Umano è infatti, intrinsecamente, Senso come Limite, cioè la Morte è inscritta nel senso dell’Essere e nel Tempo (Heidegger) dell’uomo, ontologicamente. La cultura umana e le sue espressioni derivano infatti da questo sfondo permanente di un senso che si sottrae, che non si dà, ovvero che sì dà per scarto e mostra ogni momento il suo carattere di inattingibilità: non possiamo mai attingere al senso come “cosa-in-sé” , come “in-conscio”. Come scrive Silvana Borutti, “questa prospettiva dice sostanzialmente che non sappiamo il senso come una cosa, che l’essere è non ente, ni-ente, nulla; che perciò dal punto di vista esistenziale, lo stato dell’essere (dell’essere che noi siamo) è l’ angoscia che si prova di fronte al nulla, è il lutto senza oggetto”. Un lutto senza oggetto che però ci contraddistingue come Esseri Umani. Tutto quanto detto fin qui sfuma via in un’evanescenza futile, in una “chiacchera insensata” (Heidegger), nel tempo che viviamo: il Tempo del chiacchiericcio, del telegiornale infinito, delle veline, di Striscia la Notizia. Chiacchiericcio nel quale affonda come in una palude maniacale, euforica, pseudo-brillante, unicamente feticistica, il senso del limite, il significato dell’angoscia della nostra impotenza di essere uomini, radicati temporaneamente su una Terra che ci vede solo come passeggeri (segue).

Sull'evanescenza dell'Essere e del Pensiero nel tempo che viviamo (2)


L’accellerazione globale, la cancellazione ossessiva e televisiva tra pubblico e privato, tra intimo e sociale, sono processi di deriva dell’Essere che trasformano qualsiasi psicologia del “senso” in trasferimento e semplice accumulazione di informazioni, svuotando di significato l’esperienza introspettiva, ciò che è mente, interiorità, in una parola ciò che è Umano. Vengono in mente appunto le struggenti parole di Heidegger: “Memoria è qui raccoglimento del pensiero(...). Memoria è il raccogliersi della rimemorazione presso ciò che è prima di ogni altra cosa da-considerare. Questo raccogliersi alberga presso di sé (…). La memoria, la raccolta rimemorazione volta verso il da-pensare, è il terreno da cui sgorga la poesia”( M. Hedegger ‘Che cosa significa pensare?’, in ‘Saggi e discorsi’, 1957-Tr.it Mursia, Milano, 1976). “Poesia” è per Heidegger ciò che può essere indicato come segno dell’Umano in quanto rappresentazione, e sul versante della Psicoanalisi “rappresentazione” indica il lavoro della mente, di quell’”apparato per pensare i pensieri” di cui ci ha parlato intensamente Bion, e che a sua volta è caratteristica più distintiva dell’Essere dell' Uomo. L’appiattirsi sul sociale, sul virtuale, sul tecnologico omologante, taglia fuori (forclude, direbbe Lacan, in un recinto-prigione psicotico) il soggettivo, l’introspettivo, l’individuale, e tutto questo, tutto il poetico heideggeriano, si scioglie in massa, in  gruppo, in aggregazione indistinta, indifferenziata. Non sembra quasi più necessario infatti, nell’epoca odierna, ricercare una nozione condivisa di cosa significa essere-una-persona (distinta, differente-da-un-altro), che si dà nell’autopoiesi del suo essere-nel-mondo. Tutto ciò sembra diventato superfluo (là dove per Heidegger, per Freud era fondativo). Ma se diventa superflua la nostra memoria-identità, destino migliore certo non sarà quello dell’Altro-da-sé, dal momento che il nostro Sé è come un Altro (segue).

Sull'evanescenza dell'Essere e del Pensiero nel tempo che viviamo (1)


Viviamo in un epoca di superfici e di assenza di profondità, in una “società liquida” (Z. Bauman) nella quale predomina l’appiattimento del soggettivo rispetto al socialmente visibile nell’immediatezza pura, priva di qualsiasi elaborazione, sedimentazione, processualità e fatica di pensiero. L’Essere (umano, heideggerianamente inteso) sembra essersi nascosto, insieme col Pensiero, in un luogo lontano, inaccessibile, sembra essere diventato un “Essere-rintanato-via-da-qui”. Ciò che viviamo-qui (il nostro esser-ci umano heideggeriano) si è ridotto a una continua frammentazione che non trova mai coesione, come se l’Inconscio fosse tutto e sempre catapultato fuori e compulsivamente agito (nei reality show, nella velocizzazione dei processi produttivi-lavorativi, nelle relazioni umane, nella fruizione della cosiddetta “realtà virtuale”, etc.). L’Umano è diventato quindi secondario, fuggito via l’Essere, e perciò siamo spinti sempre più in un’attrazione simil-psicotica verso l’inanimato, il meccanico, il tecnologico: il telefonino, la TV al plasma, l’ipod, il forno a microonde, le protesi biotecnologiche che innestiamo su ciò che resta di umano dei nostri corpi fisici, tutti OGGETTI inanimati che sono più significativi di ciò che è il SOGGETTO. Diventando secondario l’umano, fuggito via l’Essere in una deriva di disumanizzazione di cui poco ci rendiamo conto, diventa sempre più inesistente la distinzione tra la Vita e la Morte, tra ciò che è reale e ciò che è virtuale, tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo. Fuggito via l’Essere, subentra il Kaos parcellizzante e frantumato, che rende “significativo” solo il frammento scisso da tutto il resto, l’immagine fine a stessa, la superficie, il piacere immediato, la consumazione avida del bisogno, generando così laceranti amputazioni di parti di Sé, della Memoria, della Storia, della Soggettività, dell’Io. Ne consegue, tra l'altro, una delle patologie più diffuse oggi giorno: l'attacco di panico, ben nascosto dietro la superficie patinata di un suv o del palmare ultimo modello (segue).

Psicosi e televisione



“Fino a non molto tempo fa, ve lo ricorderete, tenevamo la televisione accesa e nel frattempo ci facevamo un caffè, rammendavamo un calzino, facevamo del sesso; oggi noi siamo seduti lì, davanti immobili e dentro lo schermo si fanno un caffè, rammendano un calzino e fanno del sesso
                Sabina Guzzanti (Reperto Raiot, Rizzoli, 2005).

Perché esiste un parallelismo netto tra psicosi e televisione? Innanzitutto perché la caratteristica principale, il parametro, l’invariante funzionale che caratterizza entrambi i fenomeni (uno più psicopatologico-individuale, l’altro più sociale-gruppale) è quello di porsi in conflitto distruttivo con il pensiero. Se, come afferma Bion, la “mente è un apparato per pensare i pensieri” (Bion, 1967), la malattia psicotica è una ribellione permanente, onnipotente e onnipervasiva contro tale apparato. Anzi, diciamo che la psicosi desidera distruggere, tale apparato, sostituendolo con un altro, fatto di immagini alternative alla realtà (l’allucinazione), e di convinzioni erronee (il delirio).  Tale sostituzione avviene innanzitutto confendondo l'esterno con l'interno, capovolgendone funzioni e ruoli, intime connessioni, distinzioni e confini. L’uso che si fa della TV è isomorfo a tale struttura, nel senso che la TV si è da tempo ormai immemore, completamente sostituita alla realtà, alterandone  i confini come sua mission (il concetto delirante di "reality-show" è una evidente dimostrazione di questa strategia dereistica): la TV è una realtà “altra” cui consentiamo di entrare in casa nostra, 24 ore su 24, molto più della realtà in carne ed ossa delle relazioni umane. Una realtà (quella propagandata dalla TV) fatta di desiderio sempre allucinato, mai reale, e che tende a generare convinzioni, ideali e valori totalmente svincolati dall’asse temporale su cui si fonda la memoria, e di conseguenza il pensiero, e di conseguenza l’identità. Il “pensare”  parte da (e mette in scena un) distacco, da un’assenza, da una separazione; proprio in funzione di tale “vuoto”, si dà pensiero, altrimenti assistiamo semplicemente a un amorfo, liquido e continuativo scorrere di immagini (come accade in TV) che portano il segno di un atto feticistico, dove l’immagine è lì per se stessa, e non si pone come evocazione, metafora, rimando, ma come statico peso autoreferenziale. E’ lecito dunque domandarsi come sia possibile che la tv possa diventare generatrice di pensiero (nel caso del “pubblico” ricevente) se questo sfondo depressivo-luttuoso del distacco (il “lutto originario” di cui parla lo psicoanalista e psichiatra francese Sassolas) è forcluso psicoticamente dalla fruizione televisiva. E’ una domanda centrale. Infatti la in-cultura post-moderna tende, come sua strategia di base, a nascondere artatamente questo aspetto, che è come dire cancellare la memoria (le immagini sono sempre, per così dire “in diretta”) per cancellare-non soffrire-il lutto di ciò che è assente, di ciò che non-è-più-in-diretta. La TV-come-psicosi tende a sostituire il lavoro continuo del lutto, attraverso cui, nel corso del tempo, decanta l’atto di pensiero , con “superfici” piatte e liquide, generando l’illusione onnipotente dell’assenza del dolore, cioè del piacere continuo. E’ un illusione, appunto feticistica, che a voler ben guardare, ha somiglianze incredibili con una configurazione tossicomanica, psicotica dove “la droga” assume un significato di feticcio, che garantisce l’illusione di una potenza sempre perennemente ai massimi livelli, la cui “dose” deve essere continuamente aumentata. Per ottenere tale effetto, la cultura televisiva, lavora malignamente sul confine delicato e soffuso tra lutto e creazione, operando principalmente attraverso gli strumenti difensivi individuali della scissione, della scotomizzazione e dell’iperstimolazione, estendendoli dall’individuo alla massa. Nel prossimo editoriale studieremo più da vicino tali meccanismi patologici (Articolo pubblicato sulla rivista online "Agli Incroci dei Venti").

Lo specchio nel buio. Il Perturbante freudiano e il Cinema Horror (4)


Nel suo tentativo di definire la dimensione emotiva del Perturbante, Freud sottolinea che esso evoca il ritorno di qualcosa di nascosto, di segreto: “E’ unheimlich tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto (Geheimnis), nascosto, e che è invece affiorato (Freud, 1919, pag. 86). Il Perturbante freudiano è cioè fortemente connesso al meccanismo della rimozione, che genera “turbamenti dell’Io”, e “(…) l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che torna”. Com’è noto, la relazione tra “casa”, “familiarità”, “trauma” e “perturbante”, è un caposaldo centrale della teoria estetica freudiana. Nel suo breve saggio su “Il poeta e la fantasia” (1908), Freud descrive l’artista come un’architetto che sa ospitare gli aspetti appunto più nascosti e “urtanti” della nostra interiorità, dando loro, appunto, una “casa”, cioè una rappresentazione che cerca di contenere, nascondendoli, tali lati oscuri di noi stessi, ma che poi comunque si mostrano proprio attraverso la metafora artistica. L’artista trova un compromesso con l’inconscio, stabilisce regole di un gioco: ma con la forma dei suoi quadri, dei suoi versi, lo nasconde. Celando l’inconscio, l’artista permette così un suo ritrovamento. Questo paradosso è l’essenza del pensiero freudiano, esso è, come scrive Recalcati (2003), "la razionalizzazione linguistica di un contenuto (inconscio) che a stento si fa contenere, anche nei suoi aspetti folli, psicotici." E’ possibile dunque intravedere una somiglianza tra l’artista e lo psicoanalista; la differenza sta nel fatto che l’artista è guidato a questo ritorno al reale da un’ispirazione artistica che trova la sua origine unicamente dai moti inconsci che muovono il suo fare, mentre, lo psicoanalista procede con un metodo medico-scientifico che si basa sull’ascolto del paziente : a guidarlo è quindi un presupposto teorico/curativo. Entrambi, tuttavia, artista psicoanalista (e aggiungiamo qui naturalmente anche il regista cinematografico), condividono una responsabilità, che è ciò che potremmo cominciare a definire responsabilità del rappresentare. Un’opera d’arte, un film, così come una interpretazione psicoanalitica si assumono infatti l’onere di “rendere conscio l’inconscio”, sebbene partano da assunti differenti e rispondano a statuti disciplinari, linguistici ed epistemologici diversi e perspicui. “Rendere conscio l’inconscio” è quindi un’operazione relativa alla conoscenza umana, e alla conoscenza dell’umano, e in questo senso si rivolge automaticamente ad un orizzonte “pubblico”, non “autistico” ed autoreferenziale: c’è un gruppo, un collettivo, una comunità cui trasmettere conoscenza, e già solo in questo possiamo cogliere dove risiede questa responsabilità, questa etica del rappresentare. Il Cinema Perturbante, ha spesso parlato di quel Geheimnis, di quel "segreto", che si mostra all’uomo come unheimlich, il Perturbante di cui ci parla Freud, e abbiamo visto nei post precedenti come il genere horror prediliga spesso un racconto in cui questo "segreto" riguarda proprio la Funzione Paterna: si tratta di un Padre che da protettivo mostra il suo lato segreto, l'altra faccia della luna, la sua faccia da Licantropo. Riteniamo che proprio questo sia il "rimosso", il "segreto", il Geheimnis che caratterizza l'Inconscio contemporaneo, o per meglio dire l'Inconscio di noi contemporanei, così uguale, ma simultaneamente così diverso da quello di cui si occupava Freud ai suoi tempi. Un Inconscio contemporaneo che nasconde appunto la  trasformazione, o meglio la trasfigurazione perversa della Funzione Paterna, che si fa quindi Perturbante. Il Cinema Perturbante (un certo tipo di Cinema, esteticamente valido e titolato in questo senso), si assume oggigiorno l'onere di parlarci di tale trasfigurazione, ti tale "segreto che ritorna", e proprio in questo consiste la sua responsabilità di rappresentare. (Segue)

Lo specchio nel buio. Il Perturbante freudiano e il Cinema Horror (3)



Il tema della “casa” e delle sue implicazioni perturbanti non è un’esclusiva del C.P. (Cinema Perturbante). Anche in ogni trattamento psicoanalitico esso emerge come metafora ricorrente. Per il paziente l’analisi è una base sicura, una “casa analisi” presso cui ritornare e dove “fare rifornimento” di “cibo mentale”, di ascolto, di attenzione. Anche la mente è spesso vista in analisi come una “casa”, sovente “in costruzione”, o in “ristrutturazione”. A volte essa però diventa una casa infestata da “fantasmi”, da pensieri ossessivi che non se ne vogliono andare, da angosce di vario tenore che albergano nel chiuso delle stanze della psiche e opprimono ogni spinta vitale. Un mio paziente ad esempio sognava spesso di trovarsi a casa sua, steso sul divano del salotto, e di ritrovarsi improvvisamente sdraiato in un dormitorio pubblico, come un clochard abbandonato da tutti: la sua casa si trasformava da luogo sicuro in non-luogo indifferenziato, e allo stesso modo viveva il suo divano analitico, la sua “casa-analisi”. Il C.P. in un modo simile al sogno del dormitorio del mio paziente, allestisce scenari in cui si rappresenta la casa come capovolgimento di rassicuranti certezze. Nel C.P., la casa è confine spaziale che significa confine protettivo dell’Io da intrusioni esterne, ma che diviene Perturbante traumatico proprio nella misura in cui ciò che dovrebbe rassicurare si trasforma esso stesso in intrusione traumatica. Pensiamo a un mitema del cinema horror, quale “The Hamitiville Horror”, di Stuart Rosenberg (1979), tratto dal romanzo di Jay Anson (1977). Il film parla della famiglia Lutz, che prende possesso, coi suoi tre bambini, di una bella e grande casa a Long Island, nonostante il fatto in sé raccapricciante, che la dimora era stata teatro, appena un anno prima, di terribili fatti di sangue. Padre Delaney, sacerdote amico della moglie Kathy, è certo che la casa, costruita nello stesso posto in cui secoli prima si svolgevano riti satanici, sia infestata da presenze demoniache. Dopo avere cercato inutilmente di avvertirli, padre Delaney diviene cieco ed impazzisce. Nel frattempo George, il marito, inizia a comportarsi stranamente fino a rischiare di diventare un assassino. La “casa maledetta” diventa essa stessa il “personaggio” fondamentale di una storia in cui il “confine” protettivo dell’Io si rompe irrimediabilmente, e porta alla follia, all’”accecamento”. E’ proprio il rapporto tra rottura del confine e follia-frantumazione, ad eleggere il tema della “casa maledetta” come centrale nel C.P. La follia-frantumazione investe un’altra membrana protettiva sociale fondamentale, che è quella della famiglia. Ma la famiglia è sempre (inconsciamente) vissuta dall’Io dell’individuo come coppia genitoriale. La coppia genitoriale è dunque un contenitore protettivo che diventa prolungamento dell’Io nel suo muoversi nel mondo, e il C.P. prende di mira parallelamente il contenitore rassicurante spaziale della casa, così come quello più psicologico-relazionale, cioè è appunto quello della coppia dei genitori. Un altro tipo di contenitore-confine protettivo correlato a quello della coppia, è senza dubbio quello della funzione paterna, così egregiamente trasformata in perturbante esperienza emotiva in quel capolavoro cinematografico che è “The Shining”, di Stanley Kubrick (1980), tratto dall’omonimo romanzo di King. Anche in questo caso abbiamo a che fare con uno spazio abitativo (l’Overlook  Hotel) e con una triade edipico-familiare classica (Nicholson-Duvall-Lloyd), minacciata dallo spazio-casa in cui dimorano. Uno spazio intriso di “fantasmi”, di “memorie” non elaborate, di colpe mai espiate e di crimini irrisolti. Di fronte a questo spazio, che è poi rappresentazione del non-spazio dell’Inconscio, la funzione paterna si perde fino a sciogliersi dai suoi legami d’appartenenza familiare, e fino a perdere la sua funzione di contenitore: il Perturbante traumatico si insinua proprio qui, corrodendo cioè proprio quel pilastro mentale che è il Padre come Funzione Organizzativa della Mente. La genialità di Kubrick consiste assolutamente nel descrivere lo smantellamento dello spazio protettivo della funzione paterna, ad opera di un “Altro Spazio”, più grande, più misterioso, e soprattutto più potente, lo spazio maledetto (e Inconscio) dell’Overlook Hotel. Jack Torrence-Jack Nicholson diventa così gradualmente, un Achab al cospetto di una Moby Dick-Overlook, che alla fine avrà naturalmente la meglio su di lui, fagogitandolo nel suo gelido ventre labirintico. Ritengo non sia affatto casuale che gli stilemi narrativi tipici del C.P. elegga lo Spazio Domestico come categoria privilegiata per rappresentare il Trauma. Il Guardiano del confine domestico è infatti, appunto, la Funzione Paterna, un Padre che possiamo rappresentarci come una specie di cacciatore carducciano che sta “sull’uscio a rimirar” (vedi G. Carducci: “San Martino”). Nel C.P. l’”uscio” della casa protettiva diventa invece una trappola, una segreta che aggetta verso l’interno di angosce paranoidi che, come “stormi di uccelli neri” minacciano (dall’interno, appunto) il contenitore familiare. Il C.P. possiede la capacità poetica di rappresentare tali angosce, possiede una sorta di “occhio clinico” particolare nel cogliere la fragilità del confine, “usando” questa fragilità come “oggetto di studio”, e costruendoci sopra, per esempio, il tema della “casa maledetta”, sempre e comunque connesso ad oggetti interni coniugali o parentali. Così facendo, attraverso la mediazione del “processo di raffigurabilità”, il C.P. ci permette tuttavia di parlare di questa fragilità, le dà cioè parola, le consente un rifugio, un frame narrativo-contenitivo dove permanere ed esprimersi, consentendo così una embrionale possibilità di elaborazione dello stesso trauma che mette in scena.  La caduta della funzione paterna e dei cosiddetti "garanti metapsichici" (ne parleremo nel prossimo post) sono temi molto attuali, nonchè fondamentali per capire le odierne evoluzioni-involuzioni culturali in cui versa l'umanità contemporanea. Proprio  tal senso possiamo dire che il C.P. ha un valore  testimoniale-sociale considerevole .Abbiamo già detto che il Cinema consente una rappresentazione sociale del trauma: ora questo "trauma" si configura meglio in quanto crisi della Funzione  Simbolica del Padre come organizzatrice-confine della mente. Ma anche di questo parleremo nei prossimi post . (Segue).

Lo specchio nel buio. Il Perturbante freudiano e il Cinema Horror (2)

Il Cinema Perturbante (come ci abitueremo a chiamarlo da ora in poi, anche attraverso le iniziali funzionali C.P., piuttosto che con la consueta, riduttiva dicitura "cinema horror"), assolve, come dicevamo, la sua funzione di rappresentazione culturale  del trauma, attraverso il suo peculiare lavoro di costruzione delle immagini,  cioè tramite un "processo di raffigurabilità".  Tale processo è descritto dallo stesso Freud  nel suo saggio sul'"Interpretazione dei sogni" (1900), laddove Freud afferma che il sogno si fonda su una regressione dell'Io  che avviene nel sonno ed implica un investimento di "tracce mnestiche ottiche" a discapito di altre tracce di memoria, come ad esempio quelle acustiche. Il sogno  è un "fatto privato", sebbene costruito secondo una "narrativa" che risponde a codici linguistici che possono anche non essere lontani da quelli di una vera e propria sceneggiatura;  il Cinema è invece un'area di intersezione culturale che definisce  un territorio misto tra l'inconscio del regista e quello dello spettatore: se infatti  consideriamo il Cinema come una serie di immagini materiali artisticamente combinate, allora tali immagini possono rappresentare un luogo d'incontro tra inconsci, poiché le immagini cinematografiche, come scrive Denis (1997) "...in quanto oggetti del mondo inerte organizzati dal mondo interiore di un uomo, essi hanno il potere di mettere in movimento tutta una parte del mondo interiore di un altro uomo". Proprio sulla linea  di pensiero di Denis possiamo dunque affermare che il Cinema Perturbante estrae evocativamente gli scheletri dai nostri armadi, cioè dai nostri Inconsci. Estrae questi scheletri, ma insieme li significa, cioè genera senso e "familiarita" intorno all'angoscia senza nome di cui gli scheletri stessi sono intrisi. Il Cinema Perturbante è dunque definibile come percezione perturbante, una “Percezione assistita” dalla Significazione, e questo è un punto molto importante del nostro discorso. Il lavoro della raffigurabilita, intrinseco al prodotto cinematografico cosiddetto horror, è infatti  un "lavoro" faticoso e angosciante, ma anche, in qualche modo "protettivo" rispetto al trauma che simultaneamente riproduce ed evoca, poiché, appunto tenta di  "rappresentarlo". Come scrive Francesco Conrotto, psicoanalista nonché, in Italia, tra i massimi epistemologi della psicoanalisi, “con il termine trauma si intende mancanza o rottura di senso. Pertanto trauma e rappresentazione sono inversi reciproci mentre la teoria traumatica è la rappresentazione della mancanza di rappresentazione” (Conrotto, 2000, pag. 34). Cerchiamo dunque di vedere meglio come il C.P. si declina ed esprime in quanto teoria traumatica.

La rappresentazione di una “mancanza di rappresentazione” (il trauma come “rottura di senso”) nel processo di raffigurabilita cinematografico, prende la sua forza dal fatto che l'immagine, fin dalle origini primigenie dell'Io, si pone come forma del confine. E' la percezione, ancora prima del linguaggio, la funzione dell'Io che si attiva fin da subito nell'incontro del Soggetto col mondo, con l'Altro-da-sè. La percezione e innanzitutto percezione del confine corporeo dell'Io, ed è propriamente questo confine che viene invaso da angosce che sono in primis angosce di frammentazione e dispersione dell'Io stesso. Stiamo cioè parlando in ultima analisi di angosce di morte dell'Io e del suo muoversi secondo linee  essenzialmente pulsionali. L'angoscia di morte è infatti, sempre, "angoscia di morte della pulsione" (Conrotto, 2000), cioè angoscia relativa al cessare della "spinta a esistere" del Soggetto stesso, spinta che secondo Freud (e anche secondo chi scrive)  è di natura essenzialmente "sessuale"', nel senso di "orientata al piacere" (questo è ciò che Freud intende per Istinto di Vita, Eros).

L'immagine, la percezione di essa, ricostruisce dunque un confine che l'Io interpreta come "pelle psichica", come frontiera familiare, e tutto ciò che definiamo "Perturbante", possiamo quindi cominciare a vederlo come tutto ciò che si muove in una direzione opposta, cioè verso un'abolizione di tale frontiera, verso il "burrone" dell'angoscia di morte. Il Cinema Perturbante sembra perciò condensare questo duplice movimento intrinseco alle parti più primitive dell'Io del soggetto: da una parte evoca la morte dell'Io mediante  una paventata-evocata  frantumazione dei suoi confini; dall'altra genera significazione, cioè un nuovo confine psichico, attraverso il lavoro della raffigurabilità, e per giunta nel punto di intersezione culturale tra due inconsci: quello dell'Io-spettatore e quello dell'Io-regista. Personalmente credo che il valore culturale,  "transizionale" (Winnicott, 1971) del C.P., consista appunto in questa sua potenzialità continuamente  decostruente, e insieme costruttiva, di un "confine", di uno spazio mentale-culturale. Il C.P. si muove sempre sul sentiero di confine della “rottura del senso”, e di questo confine fa il suo non-luogo d’elezione ed esplorazione. Esempio emblematico di  tale prerogativa del C.P. è il filone horror delle “case maledette”, nel quale il tema della distruzione del confine domestico dell’Io è stato indagato con notevole profondità da alcuni importanti registi. Sulle “case maledette” del C.P., e sulla loro importanza nella costruzione del processo di figurabilità cinematografica del trauma, ci soffermeremo infatti lungamente nel prossimo post (segue).

martedì 16 novembre 2010

Lo specchio nel buio. Il Perturbante freudiano e il Cinema Horror (1)


Tutto ciò che definiamo "perturbante" ricade sotto l'ombrello semantico del "disturbante". E "disturbante" è innanzitutto quella esperienza emotiva che fa traballare le nostre sicurezze acquisite, le nostre consuete categorie di interpretazione del mondo. E' dunque "perturbante" tutto ciò che ci disgusta, ci offende, ci spaventa, in tutte le più variegate declinazioni esperienziali di tale evenienza. L'appalesarsi di simili situazioni emotive nella nostra vita, ha il sapore del trauma, nel senso che la reazione subito innescata da una situazione, o da un oggetto, perturbanti, è necessariamente quella dell'angoscia, dal semplice "brivido" che ci corre lungo la schiena, a reazioni neurofisiologiche come  il sentire "la pelle d'oca", fino al vero e proprio attacco di panico, o sindromi affini. Il "trauma" è infatti, essenzialmente, la rottura di un equilibrio psicofisico che avevamo fino a quel momento raggiunto, e la reazione sintomatica, usualmente intrisa di angoscia, non è altro, appunto, che una sorta di "teoria del trauma"', cioè il tentativo del nostro sistema somato-psichico di farsi una rappresentazione di ciò che stiamo vivendo, di darsi un confine stabile, di farsi cioè una ragione, potremmo dire, dei sentimenti spiacevoli che sentiamo, in modo da non esserne completamente invasi. Da un punto di vista eminentemente psicoanalitico ogni sintomo psicopatologico anche molto più grave di un semplice spavento occasionale, è infatti una "teoria del trauma". Le pazienti isteriche dell'Ottocento viennese freudiano, esprimevano proprio questo carattere peculiare della mente, sulla base del quale è nata la stessa Psicoanalisi. La Psicoanalisi è cioè figlia di una teoria del trauma isterico, invenzione delle stesse pazienti di Freud, che cercavano di darsi una ragione del loro soffrire psicosomatico, evocando una "seduzione infantile" anch'essa perturbante, traumatica, ma mai rappresentata o messa in parole. La loro “teoria” è inscritta nel corpo: è il corpo isterico che “parla”. La seduzione come causa del dolore mentale è la " teoria del trauma" dell' isterico. Tale teoria ha influenzato a lungo la stessa Psicoanalisi, che poi ha comunque cambiato paradigmi scientifici lungo il corso della storia delle sue teorie e delle sue tecniche. Esattamente come le isteriche ottocentesche, anche noi, di fronte all'esperienza perturbante, cerchiamo di dare un senso all'angoscia costruendo rappresentazioni che possano significare la stessa esperienza emotiva. Oppure sogniamo, o facciamo incubi, che sono tentativi non riusciti, "aborti" teorici derivanti dall'incontenibilità della nostra stessa angoscia.  Wilfred Bion sostiene peraltro che qualsiasi esperienza ci attraversi durante ogni momento della giornata, si trasforma dentro di noi in immagini, quasi delle fotografie dell'esperienza emotiva vissuta, in modo tale che la nostra coscienza non sia troppo  perturbata dal mondo emotivo. Le immagini mentali che ci giungono in soccorso durante il nostro vivere, diventano cioè una sorta di necessaria "barriera di contatto" narrativa, onirica, che ci preserva da un contatto troppo diretto col nostro inconscio. Il saggio freudiano su "Il Perturbante" (1919) ci parla di tutto questo, senza citare mai esplicitamente tuttavia nè l' isteria, nè la teoria del trauma, ma rivolgendo semplicemente il suo sguardo a quelle rappresentazioni artistiche e in particolare letterarie che utilizzano il perturbante come teoria implicita del trauma. Per "implicita" qui intendiamo naturalmente "inconscia", cioè una "teoria" in senso lato, mentale, e non scientifico, che si costituisce comunque come movimento conoscitivo, dal momento che siamo di fronte a un tentativo di dare un senso (seppur embrionalmente emotivo e mediato dalla tecnica artistica che viene utilizzata) a un'esperienza per noi spiazzante perché incomprensibile ed extraterritoriale rispetto ai luoghi dove saldamente e usualmente si trova installato il nostro Io.   Il saggio di Freud su "Il Perturbante", risale  al lontano 1919 ed e' certamente ispirato alla altrettanto spiazzante e "insensata" esperienza della Prima Guerra Mondiale. La Morte aleggia sull'Europa in quell'oscuro periodo di transizione storica, e Freud si interroga su "quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci e' noto da lungo tempo, a ciò che ci e' più familiare " (Freud, 1919).  L'elemento che subito salta all'occhio rileggendo quest'opera di Freud, è il fatto che lo psicoanalista viennese colleghi immediatamente ciò che abbiamo qui definito come "teoria del trauma", cioè il tentativo di auto-elaborazione dell'angoscia da parte del nostro io mediante rappresentazioni di qualche natura,  con "ciò che ci e più familiare". Secondo Freud, cioè, l'origine dell'impatto traumatico del "perturbante", non risiede tanto in una sua natura "extraterritoriale", come l'abbiamo qui , fenomenologicamente definita, quanto, al contrario, in una sua intra-territorialità a noi assai familiare, che non e tuttavia riconosciuta come tale. In altre parole il "perturbante" genera angoscia innanzitutto a partire dall'interno, un "interno originario", ambientale, affettivo-familiare. Si tratta di un mondo interno privato, silente, umbratile, nascosto, che viene attivato da un oggetto, per esempio artistico, oggetto che diventa quindi  "oggetto evocativo" (Bollas, 2008). Un "oggetto evocativo" è come uno schermo bianco sul quale possiamo vedere le nostre angosce latenti, il nostro perturbante originario personale; esso consente al nostro mondo inconscio di estrinsecarsi, di prendere vita, nostro malgrado, cioè bypassando i confini della nostra coscienza. Possiamo vederlo come il catalizzatore di una reazione chimica, come la cartina al tornasole che evidenzia o meno la presenza di una sostanza. Il Cinema è senza dubbio "oggetto evocativo" per eccellenza poiché e fatto di una materia immaginifico-narrativo-visiva molto simile a quello con cui sono fatti i sogni. Ma anche il sogno, come abbiamo visto, è di per se stesso un "sintomo" cioè, a sua volta, una "teoria del trauma", nel senso che possiamo pensarlo come tentativo di rappresentazione di angosce più o meno profonde del soggetto sognante (rappresentazione più o meno riuscita, come dicevamo a proposito degli incubi). Cinema e Sogno sono strettamente imparentati, all'interno del reticolo natural-culturale del Soggetto Umano, poiché parlano attraverso codici che potremmo dire appartengono alla stessa categoria dello Spirito. Nella prospettiva teorica che stiamo cercando di costruire, Cinema e Sogno sono quindi entrambi "teorie del trauma" ( o forme della " barriera di contatto", se preferiamo usare un lessico bioniano), e in particolare il cinema cosiddetto "horror" esplora la categoria del Perturbante per tentarne una teorizzazione rappresentativo-narrativa potremmo dire radicale, calandosi nell'abisso delle angosce umane più primitive e aprendo, senza tanti complimenti, gli armadi dove giacciono gli scheletri dello spettatore. Per meglio dire un film horror è un “oggetto evocativo” d’elezione (più o meno efficace, come appunto accade ai sogni) di quegli scheletri chiusi negli armadi, e per esprimere al meglio questa sua funzione, utilizza tecniche narrative peculiari di cui parleremo più diffusamente in seguito. In questo senso il cinema di genere horror può certamente essere visto come tentativo di rappresentazione culturale del trauma (segue).

mercoledì 10 novembre 2010

La Horde, di Yannick Dahan, Benjamin Rocher (2009)

In una Parigi notturna ma illuminata a giorno da fuochi di sommosse e devastazione,  una squadra di poliziotti irrompe con modalità tarantiniane all’interno di un grattacielo fatiscente della banlieu. I nostri vogliono vendicare l’uccisione di un loro collega da parte di una banda di criminali ivi asserragliati, e tutto sembra far supporre che stiamo guardando un noir molto hard-boiled. Ma non è affatto così, perché ci accorgiamo ben presto che siamo in un imprecisato futuro millenaristico, nel quale i morti si transustanziano velocemente in zombie romeriani assetati di sangue. A neanche 20 minuti di pellicola i due esordienti registi francesi Yannick Dahan e Benjamin Rocher scaraventano inopinatamente a terra e sulle nostre fosche pupille, litri di emoglobina, decine e decine di pallottole, ossa frantumate, mentre Parigi brucia e gli zombie stanno lentamente ma inesorabilmente accerchiando il grattacielo. Poliziotti e criminali superstiti sono così costretti ad una paradossale ma inevitabile alleanza, in un inizio film adrenalinico quant’altri mai. Con questo “La Horde”, decisamente l’horror francese supera l’ormai imbolsito e tristo George A. Romero, nonché ravviva il filone zombie-movie, e lo fa con accortezza, grazia e atteggiamento assolutamente anti-mimetico. Solo questo basterebbe a rendere “La Horde” opera apprezzabilissima e da vedere. Ma ritengo sia l’equazione corpo=violenza, nonché la sua esplorazione declinata sul piano del gruppo umano/inumano a far risaltare questo film nel firmamento cinematografico horror contemporaneo. L’attenzione dei francesi al tema del corpo e dei suoi multiformi, ignoti, inconsci linguaggi è peraltro, e da tempo, un tema centrale del genere horror francofono (quasi inutile citare “Martyrs”, “A l’interieur”, “Frontiers”). I francesi, molto più di altri, molto meglio di altri, stanno da anni esplorando quest’area “natural-culturale”, e credo sia interessante accostare questa esplorazione artistica con quella della psicoanalisi francese, anch'essa molto attenta a questo tema: lo psiconalista Didier Anzieu ha scritto ad esempio pagine molto acute sul tema dell’ “Io-pelle”, e altri, come Marty, de M’Uzan e David, hanno scandagliato con finezza il dolore psichico mediato dall’area psico-somatica (provate poi a leggere qualsiasi articolo di Andrè Green in tema di “pulsione”, e capirete meglio quello che intendo dire). “La Horde” porta avanti questo discorso sul corpo come contenitore di odio, di violenza, di dolore e di morte, in modo duro, appunto “alla francese”, appoggiandosi su un reparto effettistico e su una cura del make-up mirabile e inquietante. Lo stesso ritmo serrato, ormonale, elegge automaticamente questo film a rappresentazione della pulsione pura: qui i calci sono calci, i pugni sono pugni, e le coltellate entrano nella carne fino in fondo. “La Horde” è un film "corporeo", che vuole cioè andare dritto alla Cosa, senza mai raggiungerla ovviamente, ma la direzione regressiva è quella. Lo può fare, naturalmente, solo attraverso trasformazioni di significanti visivi e narrativi. Ma lo fa con una determinazione che cattura e intrattiene, che innova e fa riflettere, senza cadere in facili moralismi romanticheggianti, e mostrando la violenza della pulsione attraverso la violenza dell’interpretazione cinematografica.  Le sequenze degli attacchi da parte degli zombie sono ben condotte, a questo riguardo, nella loro intensità selvaggia, sostenuta da un montaggio rapido ma mai frenetico, che accompagna l’azione facendocela vivere come in presa diretta. E’ in particolare il momento di svolta narrativa costituito dall’incontro con il vecchio reduce della Guerra d’Indocina (molto originale la citazione storica della battaglia di  Dien Bien Phu sulle labbra del vecchio, impersonato da un Yves Pignot  sardonico al punto giusto) a fare da spartiacque tra la prima e la seconda parte del film. A questo punto il ritmo pare rallentare, ma la tensione rimane elevata attraverso  sequenze di conflitto tra i protagonisti, tutti ottimamente valorizzati dai due registi. Una menzione particolare va a Claude Perron (Aurore), molto intensa e mai isterica, come capita spesso ai personaggi femminili di certi filmacci horror statunitensi. “La Horde” è un film molto ben girato, capace di gettare nuove luci europee sullo strausurato filone zombesco, che tuttavia non sente (saggiamente) la necessità di rincorrere ermeneutiche sociali specifiche, pur indicando sentieri e sottotesti pluristratificati, a chi guarda. E’ un film che non fa nessuna morale, ma semplicemente abbozza qua e là stimoli di riflessione che lo spettatore è libero di elaborarsi da solo, nel segreto della sua mente e della propria personale weltanschauung. Dopo il deludente, seppur ben confezionato “Mutants” di David Morlet (2009), “La Horde” si propone come una nuova, bella prova artistica dei cugini francesi, da vedere quindi necessariamente. Regia: Yannick Dahan, Benjamin Rocher Sceneggiatura: Stéphane Moïssakis, Arnaud Bordas, Yannick Dahan, Benjamin Rocher Fotografia: Julien Meurice Montaggio: Dimitri Amar Musica: Christopher Lennertz Cast: Eriq Ebouaney, Jean-Pierre Martins, Aurélien Recoing, Claude Perron, Alain Figlarz, Doudou Masta, Antoine Oppenheim Nazione: Francia Produzione: Capture the Flag Films, Le Pacte, Coficup, Canal +, CinéCinéma Anno: 2009 Durata: 90